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Armodio: il nome tradotto, il lavoro da usciere, le opere in mostra da 70 anni. «La pittura? Una ragione di vita»

I suoi soggetti «difficili da vedersi ma non impossibili», le caffettiere come personaggi, le gallerie in Italia e all’estero: «Un’esposizione pubblica a Piacenza? Non l’hanno fatta neppure a Foppiani»

Armodio (Vilmore Schenardi) nel suo atelier

«Ho più di 3mila fotografie tra disegni e dipinti: ho cominciato nel ’52, dieci anni dopo ho avuto i primi contatti con le gallerie a Roma e da allora non ho mai smesso di fare danni all’arte». L’ultimo è su un cavalletto dello studio: “Piumini”, tempera su tavola. Un altro dei suoi soggetti «difficili da vedersi ma non impossibili», definizione lampo con cui risolve l’aderenza alla pittura metafisica. Un luogo noto, dove Armodio - 85 anni lo scorso 4 ottobre - abita stabilmente da decenni. L’altro è Piacenza, origine, casa e atelier di un artista dalla lunghissima carriera: nell’ultimo catalogo 167 le voci alla pagina “principali esposizioni”. In Italia e all’estero. Il primo pensiero va alle famose caffettiere, «ma ci sono anche i libri, i ritratti immaginari, i frutti e i fiori inventati, le nature morte; ho fatto di tutto». A premessa «una dote naturale. È come avere una bella voce, molti mi chiedono “ma che scuole ha fatto?”. Quello serve fino a un certo punto, se uno dentro non ha quel quid…»

Com’è iniziata? «Essendo di famiglia benestante - ironizza - sono andato a lavorare prima dei 14 anni, una volta era così. Ero fattorino in un negozio tessile a palazzo Borsa. Luciano Spazzali (artista attivo a Piacenza, scomparso nel ‘97, nda) si occupava della vetrina e ogni tanto aggiungeva qualcosa di suo; disegni, acquerelli… Io restavo incantato. Una volta gli ho mostrato dei miei scarabocchi e lui mi fa “ci troviamo alla sera con Gustavo Foppiani (artista piacentino, scomparso nell’86, nda) nel mio studio in via XX Settembre, se vuoi venire”. Ho preso la palla al balzo, ed è stata una scuola formidabile».

Quanto ha contato questo incontro? «Tantissimo. Mi mettevano davanti a dei pacchi di carta con la china e il pennino, ho fatto quintali di disegni. Nella pittura come nella scultura se manca quello… I colori sono un bel pretesto, una convenzione del cervello, in teoria non esistono. In realtà un disegno, mettiamo di Modigliani, crea il volume soltanto con una linea. È un grande pregio che purtroppo non tutti riescono a percepire. Ma per chi ci riesce e ha la possibilità di leggere un’opera d’arte, c’è un mondo in più, una gioia. Poi mi hanno attaccato l’impegno per il lavoro, questa malattia gravissima. Non vado neanche più in vacanza. Anche perché tanti anni davanti non ce li abbiamo, quindi bisogna arrivare al dunque il più presto possibile».

Ho letto che è stato Foppiani a battezzarla Armodio. «Mi chiamo Vilmore Schenardi; in realtà mi sarei dovuto chiamare Wilmer, in ricordo di un parente morto. Ma essendo nato nel ’38 non si potevano dare nomi stranieri, quindi l’ufficiale di anagrafe, con la sua fantasia sfrenata, lo ha tradotto. E mi è rimasto questo nome strano, Vilmore, credo unico al mondo. Foppiani un giorno mi dice: “È troppo lungo, troppo complicato: chiamati Armodio”. Così, perché era facile da ricordare. E poi inizia con la “a”, quando c’è una mostra collettiva sono primo in tutti gli elenchi».

Quando è diventata l’unica professione? «Io sono invalido civile di guerra, ho lasciato tre dita alla patria e quindi avevo diritto a un posto nella pubblica amministrazione. Quando ho compiuto 18 anni mi hanno proposto l’ufficio postale o la questura: ho scelto la seconda e sono stato usciere lì per otto anni, fino a che ho iniziato ad avere la possibilità di vivere solo di pittura»

Ci si sentiva un po' provinciali nel mondo dell’arte? «Come in tutte le cittadine di provincia. La fortuna è stata quella di conoscere un tipo come Spazzali, che arrivava da Trieste; è stato come una “bomba nello stagno”. Poi nei primi anni Sessanta, Foppiani era stato accettato dalla galleria L’Obelisco di Roma, probabilmente la numero uno in Italia all’epoca. Un giorno mi dice “prendi su questi lavori che ti faccio conoscere del Corso” (fondatore de L’Obelisco, nda). Era il ‘62, da lì è partita l’avventura. A Roma abbiamo conosciuto anche Lily Shepley, grande appassionata di quadri, ne ha acquistati di miei e di Foppiani, rivendendone tantissimi ai suoi amici americani».

Prima volta all'estero: New York 1969, mostra alla Country Art Gallery di Long Island. «Non ci sono andato. Con Foppiani ne abbiamo riso spesso, anche lui non voleva saperne di prendere l’aereo. Si andava in macchina. Una delle volte a Bruxelles la ricordo bene: era autunno o inverno, lui che fumava, tutti i finestrini chiusi; a me dopo è venuta la febbre a quaranta».

Il traguardo espositivo maggiore? «Con Philippe Guimiot, un mercante come credo ce ne siano rimasti pochi. Aveva preso dei miei lavori, il giorno dell’inaugurazione della prima mostra a Bruxelles alla sera aveva venduto tutto. Poi mi ha fatto esporre ovunque: in America, a Parigi, Madrid, Anversa…»

Lei è un pittore di successo, si può dire. «I piacentini mi hanno voluto bene fin da subito. Sono stato fortunato, se penso alla fatica che hanno fatto altri nei primi anni del dopoguerra... Il mio invece era un periodo bello; nel Sessanta c’era il boom anche qui, tanta gente aveva voglia di acquistare qualche cosa per arredare la casa».

C’è un maestro di riferimento? «Di recente, parliamo di uno che dipingeva a olio, come Giorgio Morandi. Usava un pennello con le setole rigide probabilmente, che lascia quei segni, nel colore applicato alla tela, su cui quando ci batte su la luce, vibra. Io nel tempo ho messo a punto la mia tecnica particolare con la tempera, in modo diverso, lavorando con lo spessore: una volta lucidata sembra olio».

Le caffettiere? «Oggetti geometrici, un cono e un tronco. Le mie sono dei personaggi, ci metto dentro una storia. Voglio che la gente sia interessata a come è fatto il dipinto e quindi, per dare loro una mano ad avvicinarsi, devo creare una storia curiosa».

Un complimento che la soddisfa più di altri? «Se vengono a vedere le tue mostre e non escono subito, il complimento arriva sempre. Avevo adottato un motto: “Sapendo a chi piaccio, so quel che valgo”. Tante volte ci ho anche scherzato su. Cerchiamo di volare basso, siamo piacentini. Palazzi meravigliosi dentro, fuori un muro con poche finestre. Anche perché si pagava una tassa all’epoca per quelle…»

Un luogo, un’opera di Piacenza particolarmente cari? «I miei nonni abitavano in piazza Sant’Antonino, di fianco alla chiesa. Da ragazzino mi sono goduto molto quell’angolo, uno più belli della città».

Segue il dibattito culturale cittadino? «No. Quello dell’assessore alla cultura è un mestiere difficile. Poi mi sono spesso chiesto se sappiano chi porta la cultura di Piacenza in giro per il mondo. Quando si è cantanti o calciatori allora ok, ma se si fa qualcosa di diverso è più dura».

Lo scorso anno gli spazi dell'assemblea legislativa di Bologna hanno ospitato i suoi lavori. Ha dichiarato di aver esposto ovunque, ma fino ad allora, mai in una occasione pubblica allestita nella sua regione. Piacenza gliela deve una mostra? «Ah, non lo so, non l’ha fatta neanche a Foppiani. L’ha fatta la Banca di Piacenza e meno male, ma questa è una cosa che rimprovero ancora. Un maestro come Foppiani – prende un catalogo della galleria L’Obelisco – guarda con chi ha esposto: Burri, Campigli, Caruso, Chagall, Fabrizio Clerici, Salvador Dalì…e non gli fate una mostra pubblica a Piacenza che è morto nell’86? È una vergogna. A me un’antologica l’ha dedicata Mantova, alla Casa del Mantegna».

Com’è oggi la sua giornata? «Sono in studio dalle otto. C’è un lavoro che volevo iniziare stamattina, ma ci devo pensare meglio. Di solito proseguo fino a mezzogiorno, poi vado a mangiare qualcosa con mio figlio, verso le tre torno qui e ci resto fino alle 18.30, poi c’è la cena. Sono rimasto vedovo nel 2015 purtroppo e ci arrangiamo: sono un pittore massaio. La cucina però mi piace, un anno ho vinto anche il mescul d’argint».

Ci si pensiona da questo mestiere? «No. La nostra è una ragione di vita, non un mestiere. Se non dipingo è una giornata persa, non m’interessa».


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