Attualità

Famiglie nobili a famiglie storiche: l’evoluzione nella trasformazione della Repubblica

Considerazioni sulla nobiltà e para-bobiltà nel XXI Secolo

Manfredi Landi - Marco Horak - Maria Loredana degli Uberti

Un folto pubblico ha seguito la conferenza di Pier Felice degli Uberti, massimo studioso italiano di Genealogia e Araldica, tenutasi recentemente a palazzo Galli, sede di rappresentanza della Banca di Piacenza. Pier Felice degli Uberti, come ha ricordato il dott. Carlo Emanuele Manfredi che ne ha curato la presentazione, ricopre la carica di presidente della Confédération Internationale de Généalogie e d’Héraldique e in Italia presiede l’Istituto Araldico Genealogico Italiano – I.A.G.I. (nel quale funge da vice-presidente un piacentino, il dott. Marco Horak), sicuramente l’ente scientifico più conosciuto e considerato in Italia nell’ambito di tali discipline, e ricopre incarichi direttivi in molti altri enti e organizzazioni nell’ambito della genealogia, dell’araldica e delle scienze ausiliarie e documentarie della storia in genere.

Nella sua avvincente relazione, degli Uberti ha spiegato come nell’immaginario collettivo sia ancora in parte persistente una percezione romantica e romanzata del concetto di nobiltà: in effetti, nel quadro della storia sociale dell’ancien régime tutto quanto attiene alla condizione nobiliare occupa un posto eminente per la rilevanza che quella condizione ebbe nell’assetto socio-politico e per la concomitante risonanza che ebbe nel modo di pensare e di operare dei singoli.

La consueta signorile cortesia del dottor Pier Felice degli Uberti, ci consente di offrire ai lettori questo ampio abstract dello studio da lui illustrato.

La nobiltà, che oggi in Italia è da considerarsi come sostanzialmente irrilevante non essendo riconosciuta dalla legge, altro non era che una mera condizione, in particolare una condizione socioeconomica.  Se oggi si assiste a una interpretazione più razionale e aderente alla realtà del tema della nobiltà ciò si deve, in misura non trascurabile, agli studi compiuti attraverso i convegni, i seminari, le pubblicazioni e il quotidiano confronto avviato anche attraverso i moderni forum digitali, dall’Istituto Araldico Genealogico Italiano – I.A.G.I., grazie ai quali in Italia si è oggi finalmente in grado di separare ciò che è storia da ciò che è mitologia e, in ultima analisi, ciò che è vero da ciò che non lo è.  Si è trattato di un’opera lunga e impegnativa perché nel campo araldico-nobiliare, fino all’avvento degli approfondimenti promossi negli ultimi decenni dallo I.A.G.I., in Italia la confusione regnava sovrana, anche per la presenza di diversi enti di natura privata - il cui operato quindi era e rimane privo di qualsivoglia validazione e controllo da parte dello Stato - che pubblicavano e in alcuni casi ancora pubblicano elenchi nobiliari recanti diverse intitolazioni, spesso riferite a pubblicazioni che erano edite sotto il controllo pubblico all’epoca in cui la nobiltà era ancora riconosciuta, fino a giungere, fortunatamente in pochi casi, ad auto-arrogarsi il potere di riconoscere titoli e predicati nobiliari, in pratica a riconoscere ciò che espressamente la legge italiana non riconosce (in base alla XIV Disposizione Transitoria e Finale della Costituzione della Repubblica Italiana) e pertanto indirizzando il proprio operato al di fuori dei confini tracciati dalla normativa vigente.  Inoltre è opportuno e doveroso, per un approccio scientifico alla materia, sottolineare che in Italia la nobiltà non solo non è riconosciuta dall’ordinamento giuridico, ma la Corte Costituzionale con Sentenza n. 101 del 26 giugno 1967 ha dichiarato incostituzionale anche tutta la legislazione nobiliare emanata durante il Regno d’Italia, sorto a seguito dell’unificazione degli antichi Stati preunitari. Se a ciò si aggiunge l’emanazione della legge n. 898 del 1970 sul divorzio e della legge n. 151 del 1975 sulla riforma del diritto di famiglia, si può affermare che oggi in Italia non sussiste alcuna certezza giuridica che possa corroborare le attribuzioni in ambito nobiliare. Per questa ragione lo studioso Pier Felice degli Uberti nella sua relazione ha illustrato solamente quanto attualmente riveste ancora carattere pubblico, tralasciando tutto quello che ha carattere privato, che è equiparabile a quanto può avvenire in un circolo di amici che condividono gli stessi interessi, ma che al di fuori di tale ristretto ambito non ha alcuna legittimazione giuridica e in pratica è come non esistesse e non interessa a nessuno. Infatti la nobiltà può esistere ed avere rilevanza solo in ambito pubblico, ossia se riconosciuta dallo Stato. La Repubblica Italiana esiste ormai da 73 anni e  pertanto le persone nate dopo il cambiamento istituzionale che ha trasformato il Regno d’Italia in una nazione repubblicana - che non riconosce giuridicamente la nobiltà - ogni giorno di più non sanno o non ricordano cosa sia stata la nobiltà.

Come già riferito la nobiltà altro non era che una condizione socioeconomica che spesso si identificava nei ceti dirigenti e dominanti. La locuzione “ceto dominante” si riferisce alla classe sociale che anche indirettamente domina detenendo il potere politico di una nazione, mentre la locuzione “ceto dirigente” si riferisce alla classe sociale che domina le strutture politiche, economiche, sociali e culturali di una nazione. La locuzione “élite” definisce un gruppo di persone, spesso una minoranza, in possesso di autorità, potere e influenza sociale e politica. Questi tre concetti sono tutti assimilabili a quello che è stata la nobiltà nei secoli passati, ma al tempo stesso non sono determinanti per caratterizzare la nobiltà, anche se, al contrario, lo sono sempre per riconoscere senza ombra di dubbio le Famiglie Storiche. Ecco perché l’Istituto Araldico Genealogico Italiano ha messo al centro dei suoi interessi e dei suoi studi il concetto di “famiglie storiche”, locuzione ben più ampia e superiore a quello di “famiglie nobili”, concetto, quest’ultimo, non di rado offuscato da identificazioni storicamente discutibili, falsificazioni documentali e abusi di ogni genere.  Al fine di superare un’errata idea romantica che ammanta la nobiltà, si può giungere a dividere la stessa in 2 grandi periodi:  1) prima di Napoleone e 2) dopo Napoleone.

 

1) Dal Medioevo a Napoleone, per aver accesso alla nobiltà si poteva andare a combattere contro gli infedeli in Terra Santa, oppure più semplicemente acquistare con lo scopo di aumentare il proprio patrimonio “giurisdizioni feudali” su luoghi abitati o inabitati (diritto di macina, diritto di passaggio, diritto di sepoltura, diritto di pesca ed un’altra miriade di diritti) e se si otteneva così l’investitura del sovrano e si entrava in questo modo a far parte della nobiltà. Sebbene da noi il feudalesimo sia finito all’inizio del XIX secolo, esiste tutt’ora, sia pure in misura limitata, nel Regno Unito dove persistono i Lords of the Manor, una sorta di relitto feudale il cui acquisto permette alcuni diritti che, sebbene non siano di natura nobiliare, possiedono un valore storico indiscutibile, ma si faccia attenzione perché non tutto quello che è offerto sul mercato è vero e valido. Sebbene il titolo di Lord of the Manor - Signore del Maniero - non sia mai stato un titolo nobiliare, è comunque certamente fra i più antichi. 2) Dopo Napoleone la nobiltà diventa semplicemente un elevato “onore ereditario” che veniva concesso: in pratica il sovrano concedeva un titolo nobiliare che veniva trasmesso alla discendenza all’infinito.  Quello che un tempo era un onore nobiliare, oggi nella Repubblica Italiana lo possiamo paragonare al conferimento dell’onorificenza di Cavaliere del Lavoro, di gran lunga il sistema premiale più prestigioso del nostro Paese, che è destinata ai cittadini italiani, anche residenti all'estero, «che si siano resi singolarmente benemeriti», segnalandosi «nell'agricoltura, nell'industria, nel commercio, nell'artigianato, nell'attività creditizia e assicurativa» e che, come è noto, viene concesso ai più importanti e significativi personaggi, che hanno contribuito alla grandezza del nostro Paese. Per sottolineare l’importanza e il prestigio dell’onorificenza di Cavaliere del Lavoro basta considerare che la stessa viene concessa ogni anno a soli 25 cittadini italiani, mentre le concessioni nobiliari del passato erano diffusissime (si pensi che nel XVIII secolo a Piacenza, su una popolazione di circa 30.000 abitanti, i nobili erano più di 1.500, quindi superavano il 5% della popolazione stessa!).  La nobiltà nella Repubblica Italiana: con l’entrata in vigore della Costituzione della Repubblica Italia il 1° gennaio 1948, alla disposizione transitoria e finale XIV si legge: “I titoli nobiliari non sono riconosciuti. I predicati di quelli esistenti prima del 28 ottobre 1922, valgono come parte del nome. L’Ordine mauriziano è conservato come ente ospedaliero e funziona nei modi stabiliti dalla legge. La legge regola la soppressione della Consulta araldica”. La Costituzione semplicemente dice che i titoli nobiliari non hanno alcun valore per l’ordinamento giuridico, “non costituiscono contenuto di un diritto e, più ampiamente, non conservano alcuna rilevanza”, ovvero è come se non esistessero; e i predicati quale ricordo storico (ma solo quelli riconosciuti dal regno d’Italia prima del 28 ottobre 1922, instaurazione del regime fascista), fanno parte del cognome avendo valore unicamente cognominale, divenendo così una eredità storica incorporea, che come tale passa a tutta la discendenza, e non solo a chi era riconosciuto nel titolo nobiliare. Pertanto se i predicati sono “parti del nome”, il titolare può trasmetterli applicando il codice civile a tutti i suoi discendenti (legittimi e naturali) e anche agli adottivi, come qualsiasi cognome.  La frenesia di sentirsi “nobile” - in un ordinamento che non può riconoscere nessuno come tale - ha causato nel passato e causa nel presente molte richieste di modifiche del cognome utilizzando i più svariati escamotage, come ad esempio i lodi arbitrali resi esecutivi dal Presidente del Tribunale e registrati negli atti di stato civile; ma anche spesso ricorrendo persino a Tribunali ecclesiastici (in realtà competenti solo per gli atti di stato civile anteriori al 1° gennaio 1866), giungendo ad ottenere la rettifica di atti di nascita e battesimo, matrimonio e morte per poi pretendere la correzione allo stato civile. Queste modifiche di cognome, che vogliono far credere quello che non è, diventano poi davvero deprecabili quando basate su falsificazioni documentali, spesso anche rudimentali. Fortunatamente la digitalizzazione dei documenti permetterà nei prossimi decenni la conoscenza della verità e impedirà finalmente gli assurdi abusi di coloro che sino ad oggi hanno imperversato proponendosi come discendenti di personaggi storici che non sono mai esistiti, almeno nel loro ceppo familiare.  Successivamente la Corte costituzionale con la sentenza 26 giugno 1967, n. 101, ha dichiarato incostituzionale la legislazione araldico - nobiliare nei limiti in cui ad essa si dà applicazione per l’aggiunta al nome di predicati di titoli nobiliari, ed ha stabilito che la tutela del diritto attribuito dal 2° comma della XIV Disposizione transitoria e finale della costituzione italiana sotto ogni aspetto deve seguire le regole che il vigente ordinamento detta per la tutela del diritto al nome.  La grande portata della sentenza 101/67 della Corte Costituzione sta nel dimostrare chiaramente che non esiste più un ente ufficiale statuale che si occupi di tutelare i titoli nobiliari come in precedenza aveva fatto la Consulta Araldica, né potrà mai più esservi, visto che i titoli nobiliari «non costituiscono contenuto di un diritto e, più ampiamente, non conservano alcuna rilevanza», né potranno essere emesse sentenze dall’Autorità Giudiziaria dichiaranti il diritto di determinate persone a un titolo nobiliare. Ancora interessante è la sentenza della Cassazione civile, sezioni unite, 24 marzo 1969, n. 938, che ha testualmente confermato l’incostituzionalità della legislazione nobiliare se usata “quale veicolo per giungere alla cognomizzazione del predicato ex nobiliare [...]”. Ma allora cosa è possibile fare oggi in Italia per tutelare le proprie “eredità incorporee” e il proprio “stemma di famiglia”?  La principale eredità incorporea che riceviamo dai nostri antenati è senza dubbio il diritto al nome (e, dunque, al cognome) che è un diritto fondamentale ed assoluto della persona. Tale irrinunciabile e primario diritto è tutelato dalla Costituzione della Repubblica Italiana (articoli 2 e 22), ma anche dall'art. 8 della Convenzione Europea per i Diritti dell'Uomo e dall'art. 7 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea. La strada da seguire è il riconoscimento pubblico riferito all’identificazione personale quali titolari di un diritto storico legato al patrimonio morale della nostra famiglia. Sebbene le possibilità di riconoscimento pubblico possano essere molte vale la pena ricordarne quattro: 1) non essendo più possibile per gli italiani la registrazione dello stemma di famiglia presso Uffici Araldici di Stato come fu in passato (Spagna, Sudafrica), oggi non resta che la possibilità di registrazione dell’espressione grafica del nome ovvero lo stemma inteso come marchio. In Italia i marchi vengono depositati per la registrazione presso gli UPICA (Ufficio Provinciale Industria Commercio e Artigianato), sezione Ufficio Italiano Brevetti e Marchi, che si trovano presso le Camere di Commercio di ogni Provincia. Il marchio, in diritto, indica un qualunque segno suscettibile di essere rappresentato graficamente, in particolare: parole (compresi i nomi di persone), disegni, lettere, cifre, suoni, forma di un prodotto o della confezione di esso, combinazioni o tonalità cromatiche, purché il marchio sia idoneo a distinguere i prodotti o i servizi di un'impresa da quelli delle altre. Ovviamente la registrazione deve essere fatta in maniera corretta ed adeguata alla validità del marchio. La registrazione dura dieci anni a partire dalla data di deposito della domanda, salvo il caso di rinuncia del titolare, e alla scadenza può essere rinnovata ogni volta per ulteriori dieci anni. 2) Il deposito dello stemma (inteso come l’espressione grafica del nome) presso un notaio con una scrittura privata (in questo modo si ha una data certa dell’uso).

3) La registrazione del copyright del nome e cognome con l’indicazione del titolo nobiliare rivendicato dal registrante, ma inteso come identificazione personale, unitamente allo stemma.

4) Il riconoscimento dello pseudonimo realizzato con il titolo nobiliare che aveva la famiglia chiedendo il riconoscimento alla SIAE.  Tutto quanto esposto in queste quattro possibilità si riferisce solo ad atti pubblici che travalicano i limiti della sfera privata, ben diversamente dall’assoluta inefficacia che caratterizza qualunque “riconoscimento” associativo privato. Ma a ben vedere si tratta comunque di procedure che, sebbene del tutto lecite, potrebbero condurre a situazioni di divertito imbarazzo per chi le attua, nel caso si cadesse nell’errore di farsi prendere la mano da un eccesso di ambizione personale: una persona, infatti, se lo ritiene può inventarsi uno stemma ex novo tutto suo (quindi senza che gli si possa imputare il plagio di un blasone storico conosciuto e consolidato nel tempo) oppure fregiarsi di un titolo inteso come identificazione personale, ma tutto ciò non potrà mai essere paragonato all’importanza di conoscere la vera storia della propria famiglia, la discendenza documentata e i personaggi che l’hanno caratterizzata nel tempo. Infatti ciò che è davvero importante e costituisce l’obbiettivo primario degli enti rappresentati da Pier Felice degli Uberti è quello di divulgare la cultura dell’amore per le proprie radici, attraverso la conoscenza documentale delle origini che consenta ad ognuno di noi di scoprire da dove veniamo e chi chi ha preceduti nel tempo perché solo raggiungendo tale consapevolezza – oggi peraltro facilitata da strumenti prima non disponibili, come ad esempio l’esame del DNA che permette di sapere a quale ceppo etnico-genealogico apparteniamo – possiamo essere in grado di conoscere fino in fondo noi stessi. Del resto l’antica esortazione dei latini “Nosce te ipsum”  - «Conosci te stesso» - (in greco antico γνῶθι σαυτόν, gnōthi sautón, o anche γνῶθι σεαυτόν, gnōthi seautón) è direttamente derivata da una massima religiosa greco antica iscritta nel tempio di Apollo a Delfi, che testimonia  quanto nel passato si fosse diffusa la cultura della conoscenza di se stessi attraverso lo studio delle proprie radici, che oggi identifichiamo nella storia di famiglia.

Gli stemmi:

I.A.G.I. - Istituto Araldico Genealogico Italiano

I.C.O.C. - International Commission for Orders of Chivalry (Commissione Internazionale sugli Ordini Cavallereschi).


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