Attualità

“Il Betlemmino” di San Carlo: il racconto fantastico di un fatto vero accaduto in un Natale del secondo dopoguerra

Ci siamo occupati di recente (30 dicembre) della visita della “Dante” alla chiesa di San Carlo, dove si venera da un tempo che se non è immemorabile è certo antico la statua del “miracoloso Bambino Gesù”. Seguendo le vicende storiche e religiose della sacra effigie, riemergono ricordi non solo di “miracoli e grazie”, ma anche di furti e spogliazioni.

            Uno di questi fattacci (anni Quaranta) è rievocato da Umberto Fava in un suo racconto pubblicato su Libertà nel gennaio 2007 col titolo “Non era stata una rapina” e con un bel disegno della Valentina Magnaschi; poi ripreso nel novembre 2014 nel volume “La dodicesima Notte - Mezza dozzina di novellette di Natale da Santa Lucia all’Epifania” edito dal “Centro Culturale E. Manfredini” di Piacenza ed arricchito da un’acuta prefazione (“La fantasia è una veste estetica di una realtà nascosta”) di Giovanni Mariscotti, presidente di Idea d’Europa e già assessore alla cultura del Comune di Piacenza.

            Nel libro (di cui avevamo riferito anche noi de ilPiacenza con una  nota del 16 dicembre 2014) il racconto si presenta col titolo “Il Betlemmino, l’Angela e il giallo della Notte bianca”.

            Ne diamo ora, dopo un breve prologo, in un rapido stralcio, il drammatico dialogo fra la protagonista, anziana signorina del banco dei pegni, e l’Angela che fa da guardia d’onore al Bambino della chiesa di San Carlo e che, confessandosi complice della rapina notturna al Bambinello spogliato degli ori e argenti di cui era rivestito da capo a piedi, rivela il mistero del “giallo”.

DAL RACCONTO DI UMBERTO FAVA

         “Questo racconto ha la sua origine in un fatto di cronaca che impressionò Piacenza in un lontano Natale del secondo dopoguerra. La biancorosea statua di Gesù Bambino venerata nella chiesa di San Carlo o dei Carlein come la chiamava confidenzialmente il popolo (ossia la chiesa dei missionari di San Carlo, ossia dei missionari di mons. Scalabrini) fu trovata un mattino buttata nella neve davanti alla porta, e spogliata dei doni - anelli, catenine, spille d’oro o d’argento, cose così – offerti come ex voti dalla devozione popolare.

         Anche l’autore del racconto era allora un bambino, poco più grande del  Betlemmino – sette-otto anni, non di più – che s’è portato dentro nel tempo quel ricordo, finché da adulto quel ricordo s’è fatto una narrazione che liberamente fantastica su quel remoto episodio che ha fatto da sfondo a quei suoi giorni d’infanzia, di neve e di macerie. Quando nel cuore della gente doloravano ancora le ferite della guerra, come nel cuore della città le rovine delle case.

         Ed oggi, da adulto, rievocando quel tempo e quell’episodio, il bambino d’allora si chiede: cosa avvenne quella notte in quella chiesa? Chi fu il malvivente che rapinò il Bambinello, lasciandolo nudo e tramante nella neve? Ma fu davvero una rapina?”.

         E si arriva al cuore della storia.

         “Per regolare i conti la signorina del banco dei pegni voleva essere sola. E sola e soletta, ma più risoluta e dura che mai tornò il giorno dopo, camminando controvento sotto un cielo basso e bianco, carico di neve e sgocciolante come la mezza platta del mezzo Babbo Natale quella famosa sera. Da distante, dalla via che vi arrivava dritta proprio in faccia, la chiesa dei Carlein era sul fondo, appollaiata in cielo. Meglio, a metà strada fra la terra e il cielo, tra il campanile di San Paolo e i colonnotti di Stradone Farnese, come dire tra la piccola storia locale e la grande storia cristiana. E la luce della stella con la coda le stava attaccata sopra la porta a far chiaro come un’insegna, per segnare il posto dov’era il Bambinello, dire: “Gente, è qua”.

         “E’ qua, è qua, adesso arrivo...”, pensava con pensieri tumultuosi la donna dei pegni, spingendo la porta.

         “Adesso, bella mia – intimò davanti all’altare del Bambino all’angela di destra col tono d’un gendarme - mi devi dir tutto. Chi ha rubato a Gesù Bambino il mio anello e tutti gli altri gioielli? E come mai sono finiti nelle tue mani e poi nelle grinfie degli altri?”.

         L’angela la guardava in silenzio, come se invece che a lei, la donna parlasse a chissà chi.

         “Tu lo sai e me lo dici”, riprese la donna, aspra più che poteva.

         Ma l’angela non rispondeva.

         La donna non s’arrese. Non era arrivata alla sua età per darla vinta ad una statua che faceva la sorda e la muta. Tornò alla carica con più forza: “Fuori la verità, ragazza. Chi ha depredato il Bambinello? Se non parli tu, vado a chiederlo al tuo principale, e vedremo se non è vero che chi la dura la vince”.

         Allora dalla bocca dell’angela uscì finalmente una voce, come un filo di note di flauto: “Ti potrei rispondere solo se ora mi venisse un segno dal Cielo, se avvenisse un miracolo”.

         “Un miracolo? Quale miracolo?”.

         “Se per esempio in questo momento sui tetti di Piacenza cominciasse a nevicare, ma non con fiocchi di neve”.

         “Con che cosa allora? Con sassi e pietre?”.

         “Con penne d’ali di angeli, per esempio”.

         Come un tempo aveva provato l’antica tragica paura che il miracolo invocato potesse non avvenire, così ora la donna dei pegni provava l’inconfessabile e tutta attuale paura che il miracolo avvenisse davvero, perché ciò l’avrebbe costretta a riconsiderare l’intera sua faccenda.

         Il miracolo avvenne. L’angela non aveva ancora finito di parlare, che il prodigio accadde. Non quello della nevicata di piume d’angelo. Un altro, ma altrettanto prodigioso e per di più musicale. Di colpo si sentirono suonare, tutte assieme, le campane del vecchio campanaro, l’organo di suo figlio organista, il violino della violinista e la campanella del mezzo Babbo Natale. Il Cielo aveva parlato suonando.

         Campane, campanella, violino, organo suonavano probabilmente ognuno per conto suo, a seconda di dov’erano sparpagliati per la città, ma la signorina dell’anellino li udiva – perciò il miracolo era ancor più miracoloso – tutti in coro, lì, sotto la volta della chiesa. Non era una musica di Bach, era semplicemente Tu scendi dalle stelle.

         “Più miracolo di così – esclamò la donna, senza sapere se quello era un motivo  di gioia o di scontento – E’ un concerto di Natale”.

         L’angela, pur abituata ai miracoli, era rimasta senza parola, e dalla sorpresa le era rimasta anche la bocca aperta. Ma di sicuro pensava fra sé: “Quando il Betlemmino ci si mette, non fa le cose in piccolo”.

         La donna dei pegni non si lasciava però distrarre neppure dai miracoli. “Dimmi di quel Natale. Dì su, bellezza: chi ha rubato gli ori e gli argenti che erano di Gesù Bambino”.

         L’angela aveva ancora la bocca aperta, ma non parlava.

         “Medagliette, collanine, croci, cuoricini, ciondoli, perle, ex voto, dimmi chi li ha rubati – insisteva la donna con molto affanno ed anche un po’ di rabbia nella voce – Chi s’è portato via l’anellino che avevo donato al Bambin Gesù sperando una grazia e ricevendo invece una pugnalata? Tu lo sai, e non parli. Cosa sei, una complice invece che una guardia?”.

         “Nessuno li ha rubati”, fece improvvisamente l’angela.

         “Nessuno? Come nessuno?”.

         “Sono una complice, è vero, ma sono anche una che deve fare la volontà dell’alto dei Cieli e adesso le tocca fare anche la spia. E’ vero, come è vero che non è colpa di una banda di ladri e neppure di un dispetto di Erode. Insomma, non è colpa di nessuno. Non è stata una rapina”.

         “E cos’è stata allora?”.

         “Una messinscena, e basta”.

         “Ma va. Cosa dici su. Una messinscena?”.

         “Sì, inscenata da lui”.

         “Lui chi?”.

         “Proprio lui, il Bambino”.

         “Il neonato, il poppante, il cagasotto? Impossibile, non ci credo. Tu mi vuoi prendere in giro, contare una fola di Natale. Una messinscena come, perché?”.

         “Perché il poppante non voleva essere vestito d’oro e d’argento, di perle e gemme. Voleva essere povero come tutti i poveri della terra, nudo come tutti i bambini che vengono al mondo. Vuol essere un re senza corona, al massimo con la corona di spine, non il re dei re ma il re dei pezzenti, di quelli che si sentono delle pezze da piedi, come i tuoi compagni. Tutto da solo ha fatto...”.

         “Tutto da solo...”, ripeteva balbettando la signorina con aria imbambolata, ma anche con seriezza, che è qualcosa di dolce tra la serietà e la tristezza.

         “Sì, ha architettato la finta rapina, si è spogliato dei tesori che gli avevano accumulato addosso, si è fatto trovare nudo in mezzo alla neve. A me ha dato l’incarico di distribuire il finto bottino a gente di strada, di fame, di poche speranze e di molte pene”.

         L’angela aveva addosso la bellezza e lo splendore del Paradiso, ma faticava a dire queste cose. A scoprire i panni sporchi del Bambino che dovevano invece restare in famiglia ed essere lavati lì e basta.

         “Perdonatelo, è un ragazei – aggiunse – E’ l’unico re al mondo che ha la sua reggia in una stalla...”. Era un’angela, ma se non la fosse stata, nel dir così avrebbe pianto come una creatura umana.”