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Il sesso negli anni ‘50: al Romagnosi ingressi separati per maschi e femmine

Negli anni Cinquanta, in Italia, si amava all’araba. Le donne, specie quelle più giovani, e soprattutto quelle che non si erano ancora sposate, vivevano letteralmente sequestrate dai famigliari. Non faceva eccezione Piacenza: il ricordo, scritto una ventina d'anni fa, del direttore di "ItaliaOggi" Pierluigi Magnaschi

Foto di classe dell’Istituto Agrario, fine Anni Cinquanta, in prima fila Pierluigi Magnaschi

Negli anni Cinquanta, in Italia, si amava all’araba. Le donne, specie quelle più giovani, e soprattutto quelle che non si erano ancora sposate, vivevano letteralmente sequestrate dai famigliari. Anche in chiesa, le donne sedevano separate dagli uomini. Da una parte, c’erano le panche per le donne e, dall’altra, quelle per gli uomini. I ragazzini e le ragazzine potevano sedersi sia da una parte che dall’altra (anche se, di solito, come se fossero dei puledrini e delle puledrine, stavano con le madri). I ragazzini potevano restare con le mamme in chiesa fino alla pubertà. Quando la prima lanugine di peli sospettosi cominciava a spuntare sulle loro guance adolescenziali, essi abbandonavano le madri e passavano tra i maschi o fra i chierichetti.

Nessuno, ch’io sappia, diceva loro di andarsene. Erano loro che, come se fossero stati delle pere mature, si staccavano, spontaneamente e senza nemmeno dichiararlo, dal gruppo delle madri, delle sorelle e delle conoscenze femminili, per approdare fra i maschi anziani dato che, anche allora, in chiesa, di maschi giovani, non ce n’erano molti, specie nei giorni feriali. Per i giovani neo puberi la transumanza da una parte all’altra delle panche in chiesa era una sorta di coscrizione, di chiamata al proprio sesso e quindi alle regole di occhiuta e prevenuta prudenza che valeva allora a questo proposito. L’età della spensieratezza indifferenziata, senza attributi, era finita. Quella dell’identità invece, e quindi anche la conseguente ed inevitabile separazione, stava iniziando.

L’apartheid femminile si verificava anche nelle scuole di ogni ordine e grado (salvo l’università dove, peraltro, a quei tempi, le donne erano rare come le mosche bianche). Fino alle scuole superiori comprese, quindi, le classi miste erano un’assoluta rarità. Ce ne era qualcuna, per forza di cose, solo alle magistrali, dove però, i pochi studenti, venivano sommersi da una moltitudine di compagne che, in forza del numero debordante, li trattavano amorevolmente, come se fossero dei panda, una specie in via di estinzione. Fra gli altri studenti, certo senza motivo, e quindi lo riferisco solo per completezza di informazione, c’era il convincimento che i ragazzi che si iscrivevano alle Magistrali erano “più di là che di qua” e quindi erano anche, in sostanza, sessualmente inoffensivi. In questo caso quindi le classi miste erano l’ennesima conferma della regola che i maschi stavano da una parte e la femmine dall’altra.

All’istituto per ragionieri Giandomenico Romagnosi di Piacenza dove il numero di studentesse, specie verso la fine degli anni Cinquanta si stava avvicinando a quello degli studenti, i ragazzi e le ragazze, oltre a frequentare classi rigorosamente maschili o femminili, godevano (o si imponevano, a seconda delle visioni) di due ingressi separati. I ragazzi infatti entravano ed uscivano dall’ingresso principale, quello di via Cavour. Le ragazze invece da quello secondario che si trova, ancor oggi, di fianco al liceo classico Melchiorre Gioia, in via della Ferma. Nel liceo classico, che aveva un solo ingresso, l’entrata e l’uscita degli studenti e delle studentesse erano comuni ma erano anche sorvegliati da bidelli arcigni che evitavano ogni fraternizzazione anche se questi fossero stati mimetizzati da scherzi (“giochi di mano, giochi da villano” era la massima sommamente dissuasiva, in quelle circostanze).

 

Insomma a Carpaneto (e, sia pure meno, anche a Piacenza) eravamo, in quegli anni, nella stessa situazione in cui si trovava Grosseto, come la spiegò molto efficacemente, ad un intervistatore, l’animatore televisivo Gianni Boncompagni e primo scopritore ed ex compagno della nostra Isabella Ferrari, che, alla domanda: “Com’erano le ragazze a Grosseto quando lei era giovane?” Boncompagni rispose un po’ stranito, con un’ulteriore domanda: “Perché, c’erano delle ragazze a Grosseto?”.

Per le ragazze dabbene infatti era proibito tutto. I bar erano inaccessibili. Le osterie, non parliamone.  Al ristorante (quest’occasione del resto era molto improbabile, per motivi economici) le ragazze ci potevano andare solo se erano  accompagnate dai genitori. I fratelli non erano sufficienti a consentire di osare una tale esibizione pubblica. Ciondolare con dei ragazzi, in pieno giorno, in bella vista, sotto gli occhi di tutti, in una zona trafficata del paese, restava comunque uno scandalo da evitare assolutamente. Ai ragazzi e agli uomini estranei non si doveva, nè si poteva rispondere per strada. Nessuno peraltro, se non avvinazzato (un termine educato di allora, oggi scomparso, per dire “ciuk”, ubriaco, o, in subordine, alcolista) osava disturbare le ragazze per bene, cioè, in pratica, tutte.

Ma se proprio qualcuno avesse voluto avvicinarsi ed interloquire con esse (cosa non facile a farsi perché, come le suore, le ragazze camminavano sempre almeno in coppia; meglio se in più) le ragazze, “guardando sempre per terra e non rispondendo alla provocazione”, questa era la consegna, dovevano “accelerare il passo” e guadagnare al più presto un approdo affidabile che le mettesse al sicuro dall’incauto approfittatore o provocatore. E fumare? Scherzate? Era proibito a tutte. Le più sciagurate lo facevano, con grande prudenza, di nascosto. Ma fuori, per strada, non fumava assolutamente nessuna. Una sola donna poteva permettersi di fumare per strada: una prostituta dichiarata, evidente, esibita, sfacciata, adescante.

Siccome quei tempi erano morigerati anche per le prostitute che quindi non potevano, come adesso, tirarsi su la gonna (quando ce l’hanno) fino all’inguine, l’equivalente di questo gesto volgare ed inaccettabile, era la sigaretta in mano e accesa per strada da parte di una donna. La sigaretta fumante in mano a una ragazza per strada (anche se adesso questo fatto suscita ilarità o stupore) era allora una sorta di semaforo verde per chi avesse voluto approfittare del lugubre commercio.

 

Verso la fine della seconda metà degli Anni Cinquanta (all’inizio di questo decennio non se ne parlava proprio) cominciò ad affiorare, nelle famiglie moderatamente agiate (nel senso che erano da poco uscite dalla miseria) il problema di che scuole medie superiori far frequentare alle ragazze.

La gran parte delle famiglie erano rassicurate dalla scelta delle magistrali. Primo, perché la studentessa, poi diventata donna, avrebbe potuto lavorare in un ambiente sostanzialmente protetto, “lontano dalle tentazioni” che, per definizione “erano sempre dietro l’angolo”.

Inoltre, quello delle scuole elementari, dove le future maestre avrebbero poi lavorato durante l’intera loro vita, era un ambiente formato quasi sempre solo da insegnanti donne che, per di più, erano a contatto con i bambini, in quello, che unanimamente si diceva e con grande convinzione fosse “il mestiere delle donne”.

L’altro motivo per cui si preferiva avviare le ragazze all’Istituto magistrale era che questo corso di studi era di soli quattro anni, e non di cinque, come tutte le altre scuole superiori del tempo. Quindi si raggiungeva l’obiettivo, il diploma, in meno tempo e spendendo meno soldi. Duplice ipotesi, questa, che trovava l’unanime adesione delle famiglie che erano sempre impegnate a far quadrare i conti con dei tagli che nemmeno Giulio Tremonti immaginerebbe siano possibili.

Ma, verso il finire degli anni Cinquanta, anche fra le giovani e sottomesse ragazze della campagna piacentina, cominciarono a emergere spiriti appena accennati di cauta ribellione. Alcune di esse, dopo la terza media, volevano abbandonare il solco tradizionale e sicuro, perché ampiamente collaudato, che le portava a diventare maestre elementari e si ostinavano invece a voler diventare ragioniere. La madri, di fronte a quei propositi, si preoccupavano più del dovuto. I padri facevano finta di non aver sentito. Le madri quindi, davanti a queste inattese impennate, che non si sarebbero mai aspettate “da una figlia cosi brava”, dicevano, soavemente, convinte di giocare un asso di briscola, che “non è bello lavorare in ufficio, insieme agli uomini (iòmm)”. Ma, alla fine, le ragazze determinate, che non si rassegnavano alla tradizione, venivano accontentate, anche se con qualche borbottìo e sofferenza. Il muro della prevenzione, della paura del nuovo che peraltro non era arrestabile, diventava sempre più sottile e basso, anche se, allora, non c’era la televisione a facilitare un rapido e generalizzato smottamento nei valori e nei costumi. Con l’avvento della tv, che avverrà però molto più avanti, negli anni Settanta, lo smottamento sociale diventerà una frana. Anzi, verrà messo in un gigantesco e permanente frullatore.  Con gli esiti, buoni e cattivi, che oggi abbiamo sotto gli occhi tutti.

Siccome anche negli anni Cinquanta, presumo, le ghiandole dei ragazzi producevano il testosterone più o meno nella stessa quantità di oggi, anche negli anni Cinquanta l’attrazione fra i ragazzi e le ragazze era inevitabilmente molto intenso. Rispetto ad oggi, questa attrazione non aveva però modo di esprimersi in atti conseguenti. Era un sesso allusivo, simulato, mimetizzato, arzigogolato, compresso. Era sicuramente molto più erotico, in fondo, di quello che si esprime in questi anni estremamente permissivi che, anziché produrre desiderio, producono noia e disaffezione. Il desiderio infatti è sempre il rovescio della scarsità; e quindi è direttamente proporzionale ai divieti. Il sesso di allora si nutriva di speranze. Era un sesso pudico. Non praticato, sublimato, rinviato, sperato. Era un sesso in dosi ultraomeopatiche. Fatto di rossori, di pudori, di fughe e di rinvii. Un sesso non praticato e quindi anche onnipresente. Bastava l’occhiata di una ragazza per rimanere fulminati per un giorno intero. Le ragazze d’oggi, occhiate del genere, non solo non sanno farle, ma non sanno nemmeno che esistono. “Dardeggianti” le definiva, svenevolmente, ma anche efficacemente, il poeta romantico Guido Gozzano.

Per ritrovare queste occhiate, oggi, bisogna andare nei paesi arabi più oppressivi dove chi si è preso l’incarico di tutelare l’illibatezza dei costumi altrui, copre le donne da capo ai piedi ma lascia loro scoperti gli occhi che, in condizione di divieto amoroso, sono l’organo più sessuale di cui una donna coperta possa disporre. Chi però, nelle aree più oltranziste di quei paesi, si è accorto di questo pericolosissimo (ai loro occhi) effetto collaterale, ha ingranato la marcia repressiva superiore, imponendo alle donne, anche a quelle più il burka che, essendo una prigione integrale di stoffa (più crudele, però, di una prigione vera) risolve alla radice i problemi, cavernalizzando gli sguardi e mettendoli così fuori gioco. 

di Pierluigi Magnaschi, direttore di "ItaliaOggi"