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«In quei paesi là, in riva al fiume, sono tutti un po’ balenghi!»

Il Grande Fiume e Giovannino Guareschi: nel cinquantesimo della sua scomparsa lo scrittore bassaiolo è stato ricordato in tanti modi nella sua terra. Nel suo “Mondo piccolo” il racconto della sofferenza che provoca un'alluvione nella popolazione della Bassa. Don Camillo prova a rassicurare la sua gente

Giovannino Guareschi

IL VIAGGIO GUARESCHIANO LUNGO IL PO

Ricorrono quest’anno i cinquant’anni dalla scomparsa di Giovannino Guareschi, lo scrittore della Bassa, letto e tradotto in tutto il Mondo. Diverse le iniziative in Emilia-Romagna che lo hanno ricordato: un plauso alla Regione per aver valorizzato un autore in passato dimenticato dalle istituzioni politiche e letterarie. Su IlPiacenza.it vogliamo ricordarlo riportando a galla il suo legame con il fiume Po nei racconti del “Mondo piccolo”, quelli che hanno per protagonisti Peppone e don Camillo.“

La prima puntata

La seconda puntata

LA TERZA PUNTATA DEL VIAGGIO: 

Tante sono le vicende drammatiche che si intrecciano lungo il fiume. Non solo quella dei due giovani che vogliono convolare a nozze nonostante l’odio che si riservano le rispettive famiglie per colpa della politica.

L’acqua premeva sugli argini e la gente era preoccupata e tutti avevano dimenticato il Crik (…) E difatti il Crik si fece vedere la notte in cui il fiume grosso toccò il livello più alto: erano quasi le undici e pioveva a scrosci. La ragazza nella sua camera del primo piano a piè dell’argine maestro sentì a un tratto suonare un clacson e, affacciatasi alla finestra che si apriva all’altezza quasi dell’argine, video il Leopardo fermo davanti alla finestra sulla strada dell’argine[1].

In diverse occasioni il fiume può rappresentare anche la fine della vita. La sofferenza può portare a pensare - come nel caso dei due giovani innamorati - di compiere un gesto estremo come il suicidio. È ricorrente, nel “Mondo piccolo”, ascoltare uomini e donne minacciare di “farla finita” buttandosi da un ponte, annegando tra le acque del fiume.

Peppone tira fuori dalla tasca una lettera e la porge a don Camillo. (è di Dondi William detto lo Spiccio).  «Caro Peppone, quando tu riceverai questa lettera, io sarò in fondo al fiume. La gente crederà che sia stata una disgrazia». «Poi l’ho seppellito in riva al Canaletto, tra la Pioppa e il Molino Vecchio, all’altezza di dove c’è la serranda per l’acqua»[2].

Lo Spiccio una sera prese la barca e s’inoltrò nel fiume perché gli servivano una quindicina di pali. Non è che dall’altra sponda si trovassero delle botteghe che vendevano pali: di là si trovavano, come di qua, delle aie più o meno custodite, vicino alle quali c’erano delle cataste di pali. (…) Lo Spiccio andò a tirar su i pali e li caricò sulla barca; ma li caricò male perché quando fu in mezzo al fiume, la barca si capovolse e lo Spiccio, fulminato dal gelo, andò a fondo come un gatto di piombo[3].

A Pontevecchio la gente s’è buttata sulle barche per passare il Po, ma non una persona è arrivata viva di là perché le squadre rosse del paese, appostate lungo la riva, hanno fatto fuori tutti a raffiche di mitra[4].

Il fiume è anche uno “strumento di minaccia”. Nei discorsi colloquiali ricorre frequente la volontà di un interlocutore a lanciare e buttare in acqua o annegare un’altra persona. Peppone, con il suo fare – a volte presuntuoso -, talvolta minaccia don Camillo o i suoi concittadini.  Non lo farebbe mai, è un amministratore pubblico e un padre di famiglia dotato di buon senso, ma si lascia prendere dall’impeto e dall’impulsività nel dialogo (spesso poco accomodante) con i suoi concittadini.

«L’unica cosa che occorrerebbe fare sarebbe di legargli una pietra al collo e buttarlo nel Po»[5]

«Per fare le cose imparziali dovrei portarvi tutti a metà del ponte del Molinetto, legarvi una macina al collo e poi buttarvi nel fiume» gridò Peppone[6].

Le teste rotte e la gente buttata nel fiume aumentarono di giorno in giorno e, oltre ai ragazzotti, intervennero i giovanotti e gli uomini matura. «Voi» urlò protendendosi verso l’interno della baracca «voi domattina filate o vi butto nel fiume con tutta la mercanzia!»[7].

La narrazione in Mondo piccolo prevale sempre, i dialoghi danno ritmo. Ma sul Grande Fiume Guareschi offre spazio a molte descrizioni. L’autore ci fornisce sempre qualche pennellata sul Po: è crocevia dell’azione di protagonisti e personaggi secondari. Tutti passano per i suoi argini. Il Po scandisce la vita degli abitanti di questa “fettaccia” di terra e viene tratteggiato in diverse occasioni.

Allora il grande fiume incomincia a insistere, perché ha bisogno di solitudine e le voci lo disturbano. La composizione partiva dal mezzogiorno e descriveva la maestosa pace dei pomeriggi estivi. Poi ecco il tramonto: il cielo diventa rosso e il fiume ha il colore del cielo. Se non ci fosse la striscia degli argini e dei pioppi, fiume e cielo sarebbero tutt’una cosa. La musica diventava sempre più solenne e intensa. Poi, al calar del sole, di repente si faceva più sommessa e più malinconica. È sempre freddo di sera, in riva al grande fiume: sempre freddo anche se fa caldo[8].

Era caduta la sera: in riva al fiume, d’autunno, comincia a venir sera alle dieci di mattina e l’aria ha il colore dell’acqua[9].

Il sole stava tramontando e Peppone si avviò lentamente per la strada che portava al fiume. Sull’argine c’era qualcuno che stava fumando il toscano e guardava l’acqua[10].

Il fiume si allargava, davanti al paese, e pareva un pezzo di mare. Poco più a valle della chiesa sommersa c’era l’Isola[11].

L’isola in mezzo al grande fiume era sommersa completamente: emergeva soltanto la cima di qualche ciuffo di giunchi e lo zatterone puntava diritto proprio su quei giunchi[12].

 

Il Po è linea di confine, per anni territorio di scambi commerciali e scontri. Tante sono le cittadine e i paesi che si sono formati lungo il suo corso. Il fiume dà prosperità a queste località. La sua acqua è utilissima per il foraggio. Nel Mondo piccolo però può accadere di tutto e accade di tutto. Solo il Grande fiume sa ancora raccontare stramberie che sono realtà. Storie vere che sembrano favole e favole che paiono vere.

In quei paesi là, in riva al fiume, nella gran piana dove il solle battente addormenta la gente di giorno e le zanzare la tengono sveglia di notte, sono tutti un po’ balenghi e allora bisogna aspettarsene di ogni qualità[13].

Il fiume, temporibus illis, roba di cento o duecento anni prima, aveva fatto il matto; l’acqua, arrivata quasi in cima all’argine, aveva coperto una cappelletta che si levava all’ombra dei pioppi, nella fetta di terra tra l’argine e il fiume. La chiesuola era piantata in una bassa: l’acqua rimase dentro quella gran buca quando il fiume ritornò al suo posto e la chiesuola fu inghiottita lentamente dal fango e adesso, anche a scandagliare dentro il laghetto nato durante quella piena famosa, non si trova niente, neanche la punta del campaniletto[14].

L’acqua del grande fiume pareva ferma: e invece scorreva. Ma lento è il battito del vecchio cuore del grande fiume nel quale si specchiarono – ragazzi – i miei vecchi e che mi racconta queste storie di vivi e di morti[15].

Pioveva già da quattro o cinque giorni: una maledizione di acqua a cataratta, come se si fosse spaccata la conduttura maestra del cielo, e il fiume era gonfio da paura. Ma nonostante il diluvio e il pericolo, sull’argine stava un sacco di gente: avevano la doppietta sotto il tabarro e non perdevano di vista la riva opposta perché là c’era Torre del Fieno, un porco paese di gente spiccia, capacissima di passare il fiume per venir di qua a tagliare l’argine e alleggerire la pressione dell’acqua contro l’argine della loro parte. (…) L’avevano già fatto parecchie volte, nei tempi antichi, e avevano tentato di farlo durante l’ultima piena famosa, roba di circa quindici anni fa. (…) La situazione in generale era grave per via della disgraziata posizione del paese: davanti il fiume grosso in piena che premeva contro l’argine e il pericolo dei pirati di Torre del Fieno, ai fianchi due affluenti del fiume grosso, gonfi anche loro da far paura, dietro la boscaglia col pantano che si era formato per via dei canali della bonifica che erano straripati[16].

Dal racconto numero 124 «Come pioveva» Guareschi narra la centralità e l’importanza del fiume nella vita delle persone. Don Camillo è stato trasferito in un’altra parrocchia. È lontano dal suo Mondo piccolo, e un po’ tutti sentono la sua mancanza: perfino i comunisti, anche i suoi avversari politici, tra cui ovviamente il sindaco Bottazzi. E sembra che anche il tempo - inteso come condizioni meteorologiche – sia contrario all’assenza del prelato dalla sua parrocchia originaria. L’acqua scende a catinelle, il fiume si riempie. L’autore tratteggia l’angoscia della sua gente, alle prese con un fenomeno atmosferico di grande dimensioni. Il Po è gonfio, la natura rivendica i suoi spazi e l’uomo può fare ben poco per arginarlo. Alcuni dei racconti più carichi di significato lo scrittore li dedica proprio all’alluvione. «La campana» ha assonanze con la storia di Peppone accovacciato in cima al campanile cullato dalla ninna nanna dello scampanare a morto. Lassù il grosso sindaco si salva dall’alluvione di retorica e menzogna che il funzionario del suo partito porta in paese. Durante l’inondazione, don Camillo, solo nella chiesa allagata, parla di salvezza ai suoi parrocchiani rintanati sull’argine. È sempre la stessa salvezza, annunciata dal suono di una campagna: «Fratelli – disse don Camillo. – Le acque escono tumultuose dal letto dei fiumi e tutto travolgono: ma un giorno esse ritorneranno, placate, nel loro alveo e ritornerà a splendere il sole. E se, alla fine, voi avrete perso ogni cosa, sarete ancora ricchi se non avrete persa la fede in Dio. Ma chi avrà dubitato della bontà e della giustizia di Dio sarà povero e miserabile anche se avrà salvato ogni sua cosa. Amen»[17]. La scena è carica di tensione e Guareschi la tratteggia in questo modo:

…che l’unico modo per salvarsi era quello di passare dall’altra sponda e spaccare l’argine. Ottanta persone su cento pensavano affannosamente quale sarebbe stato il sistema più sbrigativo per passare di là e tagliare l’argine. E oramai era ineluttabile: qualcuno sarebbe riuscito a passare di là e avrebbe tagliato l’argine. Ma, a un tratto, la pioggia cessò. E per qualche istante la speranza che le acque discendessero rischiarò i cuori. Allora udirono suonare le campane a martello e tutto il paese si precipitò nel sagrato. (…) «Non faremo più a tempo! L’argine della Pioppaccia non resisterà» gli urlarono come risposta. (…) Don Camillo spalancò il suo enorme ombrello e si incamminò verso l’argine e la gente lo seguì. (…) «L’argine resisterà, non c’è nessun pericolo» gridò Peppone. (…) Quando li vide tutt’e due, prete e sindaco, sull’argine, all’altezza della Pioppaccia, la gente fu presa dalla frenesia e tutti corsero alle loro case e incominciarono a tirar fuori le bestie dalle loro stalle e a caricare i carri. (…) «Se, per esempio, l’argine crollasse adesso che la gente ha appena incominciato lo sgombero, pensate che magnifico risultato (…) Verso sera l’acqua incominciò a calare e don Camillo e Peppone lasciarono l’argine e tornarono nel paese oramai deserto perché la gente se n’era andata tutta. (…) L’argine maestro non si mosse di un millimetro neanche là dove – secondo la gente – avrebbe dovuto spaccarsi, e così, la mattina dopo, parecchi ritornarono in paese per fare qualche altra carica di roba. (…) Però, verso le nove, accadde quello che nessuno si aspettava. L’acqua era cresciuta ancora, e se non ce la faceva a bucare l’argine maestro, aveva però trovato buon gioco là dove l’argine grosso era già bucato[18].

Un paio di chilometri a est dopo il paese, la strada che correva sull’argine maestro doveva passare sopra il ponte del Fossone perché qui l’argine era interrotto per via del torrente Fossone che sfociava nel fiume. Il Fossone era, si capisce, chiuso tra due argini solidi e sicuri: ma, per la gran piena dei fiume grande, il Fossone aveva dovuto invertire la marcia. E l’acqua, invece di uscire nel fiume, entrava dal fiume. Ed entrava a velocità sempre più forte: così, trovato un punto deboluccio là dove l’argine sinistro del Fossone, subito dopo il ponte, si innestava nell’argine maestro, aveva incominciato a scavare sotto, e a un brutto momento, il buco era diventato una caverna. L’acqua sbucò dalla terra come un fontanone e, mano a mano, che passava, rosicchiava il buco. Non c’era niente da fare: appena dato l’allarme, quelli che erano tornai si misero in salvo con birocci e camion. (…) Di lassù si vedeva tutto benissimo: l’acqua aveva già invaso la parte bassa del paese e lentamente avanza. L’acqua arrivò alla casa di Merola: una vecchia bicocca isolata, tirata su con mattoni cotti al sole e fango. Quando l’acqua raggiunse le finestre del pianterreno, la casipola crollò. (…) Intanto l’acqua veniva avanti sempre più rapidamente: la terra, per il gran piovere, era fradicia e non poteva più assorbire una goccia. E poi, oramai, l’acqua aveva raggiunto la parte alta che, adesso, era tutto in piano. Udì un tonfo e guardò col binocolo che s’era portato: l’argine del Fossone, minato dall’acqua, era crollato per una cinquantina di metri. (…) …s’erano buttati verso il paese con birocci, moto e biciclette e si erano ritrovati sull’argine davanti al loro paese oramai allagato. (…) Don Camillo, quando aveva visto la gente sull’argine maestro, era sceso. L’acqua, superati i tre gradini del portale, era già entrata in chiesa. (…) I suoi fedeli erano all’asciutto, là sull’argine. E quando venne il momento di parlare ai fedeli, non gli interessò il fatto che la chiesa fosse deserta: egli parlava per quelli là sull’argine. C’era un metro d’acqua in chiesa e i banchi e confessionali si erano capovolti e navigavano in quel fango liquido. (…) «Fratelli» disse don Camillo. «Le acque escono tumultuose dal letto dei fiumi e tutto travolgono: ma un giorno esse ritorneranno, placate, nel loro alveo e ritornerà a risplendere il sole. (…) I due uomini cercarono di convincerlo, gli spiegarono che tutto il paese sloggiava perché l’acqua da un momento all’altro poteva spaccare l’argine, ma il Maroli scosse il capo[19].

 

Sono pagine di angoscia per don Camillo e la sua gente. La popolazione è in difficoltà, per l’ennesima volta, a causa dell’impeto del fiume. Ma la gente del Mondo piccolo sopravvive anche a questa calamità: Poi, la mattina seguente, il fiume ruppe l’argine e l’acqua arrivò fino a mezzo metro dal soffitto del pianterreno[20]. Andò a spalancare la finestra e, in fondo, sull’orizzonte di quella gran distesa d’acqua che pareva il mare, c’era una riga rossa di tramonto, sottile sottile, come se l’avessero segnata col lapis rosso[21].

L’acqua l’aveva sorpreso fuori di casa e Dio sa come si era salvato: poi, spentasi l’ondata, si era buttato in acqua ed era arrivato a casa. L’acqua arrivava al metro e ottanta (…) Poi, rapidamente, l’acqua era salita coprendo la porta e Ful si era trovato prigioniero[22].

Ritornò la gente in paese perché l’acqua era andata via e adesso c’era un sacco di fango da portar fuori dalle case[23].

Il paese, in seguito, è alluvionato ancora una volta: segno che il fenomeno non era occasionale. A vegliare, da solo, sulle case rimane proprio Don Camillo, mentre tutti hanno abbandonato le proprie cose. Passano i giorni ma la preoccupazione rimane. Il sacerdote, camminando in su e in giù nei pressi degli argini, si ferma a riflettere. E con lui, Guareschi. Era sera: don Camillo si ferma sulla riva dell’acqua e osserva, pronuncia un discorso. Le parole del prelato rappresentano uno dei pochi momenti lirici di Mondo Piccolo.

«O tu che raccogli le voci del monte e del piano» sussurrò don Camillo «tu che hai visto le angosce dei millenni passati e vedi quelle dei nostri giorni, racconta agli uomini anche questa storia. Dì agli uomini: “Voi che fecondate nel vostro cuore il germe dell’odio, liberate una belva che poi vi sfugge e fa strage delle tenere carni dei corpi. Una belva che di notte corre i campi addormentati e penetra nelle case e poi, all’alba, si unisce al branco che batte le contrade di tutto il mondo”. Dì agli uomini: “Abbiate pietà dei vostri figli. Dio avrà pietà di voi”. Il fiume continuava a portare acqua al mare. Sempre la stessa acqua di cento miliardi d’anni fa. Storie vanno al mare, e storie ritornano dal mare al monte e al piano. E sono sempre le stesse, e gli uomini le ascoltano ma non ne intendono la saggezza. Perché la saggezza è noiosa come i cento e mille e centomila don Camillo che, persa la fiducia negli uomini, parlano all’acqua dei fiumi[24].

Qui, tra l’acqua del grande fiume e la terra della Bassa, prende forma uno dei luoghi letterari di Mondo piccolo più carichi di significato. Guareschi riporta le sue creature al momento in cui hanno cominciato a vivere. Gli uomini si trovano soli e disarmati. Sono radicalmente poveri davanti al mondo e alla vita. Sono tornati a essere l’impasto di acqua e di terra che lo scrittore ha raccolto in riva al fiume[25]. Il fiume poi si calma e scorre placido e lento, lì a due passi, sotto l’argine, ed era anch’esso una poesia: una poesia cominciata quando era cominciato il mondo e che ancora continuava. E per arrotondare e levigare il più piccolo dei miliardi di sassi in fondo all’acqua, c’eran voluti mille anni. E soltanto fra venti generazioni l’acqua avrà levigato un nuovo sassetto[26].

PROSEGUE

 

[1] Ibidem, p. 1101 (da Gente così, apparso nel 1953)

[2] Ibidem, p. 333 (da Mondo Candido 1948-1951)

[3] Ibidem, p. 330 (da Mondo Candido 1948-1951)

[4] Ibidem, p. 2058 (da Ciao, don Camillo, apparso nel 1960)

[5] Ibidem, p. 1454 (da Noi del boscaccio, apparso nel 1953)

[6] Ibidem, p. 416 (da Gente così, apparso nel 1950)

[7] Ibidem, p. 470 (da Ciao, don Camillo, apparso nel 1950)

[8] Ibidem, p. 723 (da L’anno di don Camillo, apparso nel 1952)

[9] Ibidem, p. 204 (da Don Camillo, 1948)

[10] Ibidem, p. 272 (da Mondo Candido 1946-1948)

[11] Ibidem, p. 350 (da Don Camillo e il suo gregge, 1953)

[12] Ibidem, pp. 1749-1750 (da Ciao, don Camillo, apparso nel 1957)

[13] Ibidem, p. 363 (da Mondo Candido 1948-1951)

[14] Ibidem, p. 565 (da Noi del Boscaccio, apparso nel 1951)

[15] Ibidem, p. 598 (da Noi del Boscaccio, apparso nel 1951)

[16] Ibidem, p. 435 (da Mondo Candido 1948-1951)

[17] A. GNOCCHI, Giovannino Guareschi una storia italiana, Milano, Rizzoli, 1998, p. 215

[18] G. GUARESCHI, Tutto don Camillo. Mondo piccolo, 3 vol., Milano, Rizzoli, 1998, pp. 631-633 (da Don Camillo e il suo gregge, 1953)

[19] Ibidem, pp. 631-637 (da Don Camillo e il suo gregge, 1953)

[20] Ibidem, p. 640 (da Don Camillo e il suo gregge, 1953)

[21] Ibidem, p. 641 (da Don Camillo e il suo gregge, 1953)

[22] Ibidem, p. 641 (da Don Camillo e il suo gregge, 1953)

[23] Ibidem, p. 649 (da Don Camillo e il suo gregge, 1953)

[24] Ibidem, p. 684 (da Don Camillo e il suo gregge, 1953)

[25] A. GNOCCHI, Don Camillo e Peppone. L’invenzione del vero, Milano, Rizzoli, 1995, p. 40

[26] G. CONTI, Giovannino Guareschi biografia di uno scrittore, Milano, Rizzoli, 2008, p. 376


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