Piacenza, una storia per volta

Angelo Biavati, più di cento recite come “Tognass-savatèi”

Angelo Biavati, impareggiabile ed ineguagliato interprete di “Tognass” ciabattino (savatèi), figura di spicco della celeberrima commedia in vernacolo scritta ed introdotta sul vecchio palcoscenico della “Filo” da un autentico figlio del popolo quale fu Egidio Carella

Biavati in scena

Trattiamo di un altro personaggio della Piacenza popolaresca, ma stavolta non un diretto protagonista del “teatro di strada e di vita”, bensì solo di teatro nella piena accezione del termine. Ci riferiamo ad Angelo Biavati, impareggiabile ed ineguagliato interprete di “Tognass” ciabattino (savatèi), figura di spicco della celeberrima commedia in vernacolo scritta ed introdotta sul vecchio palcoscenico della “Filo” da un autentico figlio del popolo quale fu Egidio Carella.

Non intendo certo entro nel merito della vitalità del dialetto piacentino. Non ne ho la competenza. Certo va riconosciuto tutto il merito a chi (in primis la Banca di Piacenza ed alcuni studiosi) cerca di mantenerlo in vita sia con studi specifici, edizioni, convegni o con lezioni (come quelle organizzate alla Famiglia). Ma a mio modesto avviso, una lingua è tale fin che è espressione delle quotidianità, è humus familiare, è usuale scambio interpersonale. Se non è tale, entra nel novero dei ricordi, belli e nostalgici certo, ma pur sempre tali.

Il teatro in vernacolo per esempio, riporta in scena situazioni di vita ed ambienti che non appartengono più alla nostra città; certo, probabilmente cercano di ricrearli, ma purtroppo servono solo a permearli di un nostalgico sorriso, come quello che elargiamo ad un mondo che non c’è più. Con queste poche osservazioni non desidero certo suscitare alcun dibattito; non mi interessa. Con il mio blog forse cerco di fare allo stesso modo: ricordo situazioni, fatti, personaggi, borgate di una Piacenza svanita. Certo la rimpiango: l’ho afferrata “per la coda”, soprattutto nelle lunghe e dettagliate testimonianze dei più anziani tanti anni fa; mi sento solo come un “piccolo aedo” che vuole tenere ancora un po’ sospeso il ricordo, prima che il tempo spazzi via inesorabilmente tutto.

Ma nel periodo di Biavati “savatèi”, nei quartieri popolari, come nelle case della piccola e media borghesia, il dialetto era la quotidianità familiare e le situazioni sceniche coglievano la vita reale, il tutto giocato sull’ironia e sul sorriso grazie alla bravura degli interpreti. “Toot l’onor, addio baracca” venne rappresentata per la prima volta, con strepitoso successo, nel 1930, un periodo della “grande depressione” economica, non propriamente idonea agli spassi, alle evasioni ridanciane, con quello che “bolliva” nel calderone sociale della nostra stessa municipalità. L’opera giunse sulle scene durante un concorso teatrale nazionale nel 1930 dove riscosse ampi consensi da diversi critici teatrali del tempo.

Biavati invece cominciò a calcare le scene nel 1920, diciassettenne; esordì sul palcoscenico della Filo quando l’astro di Faustini era giunto allo zenit del Parnaso vernacolo; morirà nell’aprile del 1922, pochi mesi prima della marcia su Roma dopo aver deplorato in una delle ultime poesie il quotidiano fratricidio civile.

 

Biavati ricordava quei tempi cruenti e tumultuosi con distaccata obiettività di spettatore. Più che il “teatro del sangue” a lui interessava quello di vita popolaresca, ai margini delle lotte ideologiche, come ben si desume da una sua rievocazione apparsa sul quotidiano locale nel 1949 dove rammentava quel suo esordio giovanile già elogiato nel 1946 dallo stesso Carella il quale sottolineava che senza la “superba interpretazione” di Biavati il suo “Tognass” non avrebbe riscosso un successo trentennale.

Biavati ricordava di aver iniziato a recitare praticamente ai tempi della scuola, con gli amici; avevano allestito un palcoscenico in una vecchia rimessa di via Solferino (Via S. Franca) e le rappresentazioni poi avvenivano per gli inquilini dello stabile.

L’esordio vero e proprio fu nel 1920: capelli alla moda e scarpe appuntite, si recò alla Filo e da semplice neofita si dovette adattare a lavorare sodo per tre o quattro anni, dalla gavetta, sostenendo le parti di cameriere, maggiordomo, servo che non parla, con grande spasso degli amici che nelle prime file lo incitavano dicendo “Dai dì qualcosa, parla anca tè!”. Ma lui Biavati sempre muto, impassibile, così come imponeva il copione; finché, come scrisse in quella testimonianza nel 1949 su Libertà, “in una gelida sera di dicembre 1929, il presidente della Filo di allora, il conte Riccardo Douglas Scotti, riunì la compagnia per la lettura di un atto unico di autore ignoto, un bozzetto in dialetto piacentino dal curioso titolo “Toot l’onor, addio baracca.

 

Si trattava di una pièce del tutto originale, fuori dalla stucchevole convenzione del teatro dialettale che peraltro quasi non esisteva in quell’epoca, sovrastata da quella post-veristica delle varie scuole regionali, soprattutto napoletana, milanese, piemontese, per non parlare di quella veneta di goldoniana ascendenza. Quando fu deciso di mettere in scena quell’atto unico, assegnando le rispettive parti, a Biavati toccò quella del calzolaio “Tognass”, il tradizionale “savatèi”, modellato sui prototipi di Cantone dei Calzolai ed in senso più lato, di quelli delle borgate di genere più “macchiettistico”: Borghetto, Cantarana, “Stra ‘lvà”, Porta Galera, S. Raimondo.

“Fu - commentava Biavati- come il cacio sui maccheroni”; si trovò infatti subito a proprio agio in quel ruolo “perché io che avevo vissuto in un negozio di pellame e conoscevo tutti i calzolai della città, non feci altro che ricordarmi i tanti tipi che frequentavano la bottega; li studiai, ne imitai i gesti, il modo di vestire”; insomma tutte quelle complessioni che contraddistinguono un carattere e che Biavati poi portò sulla scena. «Aggiunsi- ricordava Biavati- anche una battuta al copione che avevo sentito da un ciabattino che conoscevo. Era la massima che Tognass diceva alla figlia che voleva sposare un dottore: “paribus comparibus, savatèi con calzolaribus. Anni dopo leggendo una raccolta di poesie di Faustini, scoprii che quei versi erano stati presi da lì, senza che ne io, ne Carella lo avessimo immaginato”.

Quell’atto unico di autore ignoto andò in scena nel teatrino della Filo il 12 gennaio 1930 come prologo di una “serata folcloristica”. La Scure lo recensì dicendo che “il lavoro ebbe il suo tributo di giustificata curiosità nella serata. Il lavoro è ambientato in un quartiere popolare della nostra città, in Strà ‘lvà. La trama del lavoro non è certo molto estesa, tenuto presente il genere di bozzetto”. Nel 1933 l’opera fu riscritta da Carella in tre atti più articolati e coloriti di battute popolaresche ed ebbe in Biavati insostituibile interprete. Insomma ormai era divenuto Tognass per antonomasia.

Ritiratosi poi dalle scene a causa di una infermità all’apparato auditivo, Biavati ricordava di aver interpretato quel ruolo per più di un centinaio di volte, recitando anche in tutte le più note commedie di Carella. Ricordava la sfilza copiosa di amici di scena accanto a cui aveva calcato il palcoscenico della gloriosa Filo: da Ortensia Bazzani, ad Angelo Croce, da Pietro Chiapponi a Luciano Ambroggi, da Carla Tamagni ad Aldo Rossi, da Luigi Poggi a Piera Calzolari Durelli, da Cecco boni ad Alberta Pagliani, fino a Nino Castellini e sicuramente ne dimentichiamo qualcuno. Biavati grazie a Carella portò sulla scena una Piacenza umile, schietta e vigorosa che oggi non ritroviamo più, se non ancora sulle scene di qualche rappresentazione vernacola ancora attiva grazie alla passione di sempre più esigui cultori.


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