Piacenza, una storia per volta

Breve storia del cinema a Piacenza: ormai tutto è cambiato

Con questa ultima puntata si conclude la testimonianza diretta di un protagonista della stagione “eroica” del cinema, quella di Alessandro Manfredi, proiezionista

Con questa ultima puntata si conclude la testimonianza diretta di un protagonista della stagione “eroica” del cinema, quella di Alessandro Manfredi, proiezionista. Che prosegue ricordando le due fondamentali esperienze di lavoro al Politeama ed al cinema Corso.

“Il tempo passò ed io, parafrasando Totò, “modestamente, crebbi”. Il cinema nel quale ero cresciuto tutte le domeniche perdeva spettatori. I Salesiani, per la crisi delle vocazioni che cominciava a farsi sentire, avevano abbandonato Piacenza ed al loro posto venne don Leonardo Bargazzi come parroco, coadiuvato da almeno un curato. Era chiaro che quel cinema non sarebbe durato molto indipendentemente dalla nuova gestione, che cercava in ogni modo di farlo sopravvivere. Iniziai proponendomi al Sant’Antonino e iniziai ad andare a lavorare là, dove la crisi era sconosciuta stante la vicinanza con l’altro cinema e chiesi a mio nonno, che era amico del proprietario del Politeama, se avrei potuto andare a vedere la cabina di quel cinema. Avuta risposta affermativa, mi presentai là, senza sapere che la mia conoscenza in materia sarebbe cresciuta molto e che lo avrei frequentato quasi tutti i giorni per più di cinque anni.

Feci così la conoscenza con “Il Remo”, che era ”l’operatore capo”, termine che mi era sconosciuto. A lui devo la maggior parte delle mie conoscenze in materia. Il lavoro non era impegnativo più di tanto: là la lanterna a carbone aveva un avanzamento automatico che funzionava perfettamente, tarato in modo maniacale da entrambi con grande soddisfazione, per cui era necessario controllare gli elettrodi ogni 10 minuti. Io ero là, a montare film nuovi in scatole metalliche lucide e non più arrugginite come nel vecchio cinema parrocchiale, a oliarli per ridurne l’usura e il rumore in proiezione, a controllarne l’audio, finalmente proiettando film senza giunte e che non si rompevano mai.

Il Remo aveva quel grado che risaliva all’epoca (pochissimi anni prima) in cui uscivano i Colossal in 70mm, cioè si proiettavano film con pellicola larga non 35, ma il doppio: siccome era necessario cambiare rullo ogni 15 minuti circa e non più giuntarlo al successivo come nei film normali, era lui a dirigere le operazioni: una macchina proiettava un rullo, un’altra un altro e così via senza che gli spettatori si accorgessero del cambio. Un lavoro preciso che, nel formato normale, avveniva solo tra il primo e il secondo tempo. Usciti in 70mm furono “Ben Hur”, “Cleopatra” ed altri. Altamente spettacolare per definizione e qualità audio (magnetico e non ottico come gli altri), fu abbandonato per gli alti costi di stampa, immagazzinamento e proiezione. 

Quando il Remo ritenne che avevo raggiunto il livello di professionalità che si aspettava da me, mi disse che potevo stare in cabina anche quando c’era anche l’altro operatore, l’Alfredo, che a differenza di lui qualcosa faceva: leggeva il giornale e mi parlava sempre.Lavorare al Politeama, per quanto come volontario non pagato, mi introduceva di fatto nel cinema professionale e conobbi altri operatori dei cinema vicini, con il Remo che mi raccomandava a loro nel caso avessero bisogno di qualcuno per sostituzioni. Fino ad allora per me fare il proiezionista era un gioco e non guadagnavo. Fu così che fui chiamato per brevi sostituzioni, fondamentalmente all’”Excelsior” e al “Corso”, fu così che passarono gli anni e i film che potevo imparare a memoria. Ricordo “Il gatto a nove code”, il mio primo vietato ai minori di 14 anni, “Quattro mosche di velluto grigio” di Dario Argento, “Il Decameron”, primo film vietato ai minori di 18 anni quando ancora non li avevo, “La classe operaia va in paradiso”, grandissimo ritratto di un periodo storico e di una mentalità (e con un messaggio) oggi inconcepibile. Per non parlare di “Giù la testa” e “I guerrieri” tutti imparati a memoria senza volerlo, a forza di guardarli e di ascoltarli.

 

Nell’intervallo mettevo su un rudimentale giradischi “Emozioni” di Lucio Battisti. Ancora oggi, se lo ascolto, vedo quell’ambiente e ne sento suoni e odori. Al Politeama feci il mio primo incontro con i decreti della Commissione Censura dell’allora Ministero del Turismo e dello Spettacolo: ero là quando fu ritirato “Ultimo Tango a Parigi”, ero là quando personale della Questura venne a notificarmi l’ordine di tagliare alcuni fotogrammi di “Scipione detto anche l’Africano” nell’attesa che la frase “Non mi rompere li cojoni” fosse sostituita con “Non mi rompere li contrappesi”. Ero là quando andavano tolti brevi, ma gradevoli, dettagli anatomici femminili di pochi fotogrammi che erano evidentemente sfuggiti alla Commissione in primo grado. Ma al Fumeo avevo avuto una buona scuola.

Nel frattempo i progressi della tecnica avanzavano e dalle lanterne a carbone si passò a quelle con lampade allo Xenon che ridussero di molto il lavoro in cabina accanto ai proiettori: in pratica era sufficiente rimanere in cabina e intervenire sulle macchine per cambiare le bobine, accendere le luci in sala e proiettare le presentazioni, le pubblicità e i cinegiornali, mal sopportati dagli spettatori.

Lo sviluppo tecnologico non riguardò solo le lanterne, ma di lì a poco arrivò anche un dispositivo che, se fatto scattare da un malaugurato strappo della pellicola dovuto a una giunta mal fatta o a un punto usurato della perforazione, fermava automaticamente il proiettore e accendeva la luce in sala.

Al Politeama nel frattempo molte cose erano cambiate: il proprietario di prima era venuto a mancare in un incidente occorsogli nel cantiere sottostante, quello in cui si costruiva quello che oggi è il parcheggio e la gestione andò ai figli. Accanto al cinema, inoltre, si costruiva in palazzo in cui attualmente ha sede il COIN e fu ricavato uno spazio per il Ritz, che nelle intenzioni avrebbe dovuto diventare un cinema d’essai. Per quel cinema furono installate macchine nuove, studiate per ridurre al minimo la presenza dell’operatore in cabina.

L’apertura del cinema Ritz, che inaugurai con “Cadaveri eccellenti” di Rosi nel 1976, coincise con la prima proposta di lavoro seria, vale a dire entrare al Politeama come proiezionista: fino ad allora quel lavoro era stato per me un’attività secondaria. Entrare nel personale di quel cinema mi sarebbe piaciuto: conoscevo pregi e difetti dell’ambiente e sarei stato un neo- assunto solo a parole, ma frequentavo il Conservatorio e dovevo studiare con orari incompatibili con un lavoro a tempo pieno, per cui molto a malincuore rifiutai l’offerta. Per come andarono le cose nel campo del cinema e non solo, pensi di aver fatto la scelta migliore.

 

Il “Corso” e la crisi. Enrico Leonardi era un ragazzo più o meno come me. Avevamo studiato nella stessa scuola e, anche se lui era due anni avanti a me, ci conoscevamo. Gestiva la sala con sua madre e un giorno, frequentando anche la stessa palestra, mi chiese se me la sentissi di fare qualche ora alla settimana da lui perché la cabina la faceva andare avanti un solo operatore e, lavorando dieci ore al giorno da qualche mese, si stava esaurendo. Accettai con entusiasmo e così andai a lavorare lì, arrivando in breve tempo a fare l’orario pieno, 10 ore un giorno sì e uno no, tutti i giorni dell’anno mese di agosto escluso.

Rimasi al Corso fino al 1980, anno in cui dovetti partire per il servizio militare, per poi farvi ritorno verso la fine del 1981, ma nel frattempo il mondo che ho descritto nei capitoli precedenti stava cambiando tanto rapidamente quanto inesorabilmente perché il cinema non interessava più, complice la concorrenza spregiudicata di due oggetti divenuti terribili, la televisione e il videoregistratore. E il “bello” è che tutto partì da uno strumento che per il cinema era assolutamente inoffensivo, cioè la radio perché con la liberalizzazione locale furono molti gli imprenditori che pensarono di investire non solo nella radio, ma anche nella televisione.

C’è un film, uno dei tanti della saga fantozziana, che documenta la realtà televisiva di quegli anni: nel – mi pare – “Secondo tragico Fantozzi” c’è una sequenza che molti ricorderanno: il programma notturno di una tv privata che proponeva il terribile spogliarello di una casalinga. Ecco, in quella sequenza c’è uno dei motivi per cui la gente, o per meglio dire il pubblico maschile, smise di andare al cinema la sera, all’ultimo spettacolo in particolare, quello delle 22:30. Le tv private erano tante ed alcune iniziavano spettacoli paraerotici a partire dalle 23.

Ma le vere armi letali per il cinema, o meglio della sua fruizione collettiva, furono in realtà due: la televisione e il videoregistratore, quest’ultimo dai prezzi proibitivi all’inizio, ma abbordabilissimi nel giro di una decina d’anni dall’uscita del primo modello. Se un tempo la RAI trasmetteva solo dalle 17 a mezzanotte, progressivamente la televisione commerciale invadeva ogni spazio orario fino a coprire le 24 ore della giornata. E la gente aveva tutto gratis, senza uscire di casa.

Inutile dire che la cosa destò una preoccupazione assai seria nei gestori, che si trovavano a fronteggiare una situazione contro la quale non poterono far nulla. Erano tempi molto tristi, la gente che veniva al cinema era poca e, come già accaduto tante volte, furono i film porno a tenere aperti alcuni locali. Ad esempio il Corso, vuoi per sopravvivere, vuoi per mantenere lo standard di incassi dei tempi che stavano andandosene, fu il primo a proporne, alcuni dei quali in 3D, da vedere con occhialini particolari.

Ci fu poi il tempo dei film porno. Alle prime programmazioni si presentava gente assolutamente normale, che guardava il film tra il divertito e l’incuriosito: militari, compagnie di ragazze, coppie giovani e non. Ma col tempo, come tutte le persone normali, si stancarono ed allora entrò un pubblico “particolare”. Era evidente che il cinema stava cambiando e che sarebbe – come disse il grande Alain Delon diversi anni fa – “morto”. Morto come idee, attori, modo viverlo e intenderlo.

Il cinema come passaggio di immagini che sfruttano la persistenza retinica ci sarà sempre, ma a scomparire, a morire, è stata l’affezione al luogo, al modo in cui il film lo si centellinava. Ogni cinema, inteso come sala, era un mondo a sé, concepito per mettere lo spettatore a suo agio e non, come i multisala o multiplex moderni, per inserirlo in un universo di suoni ed effetti di ingegneria, costringendolo a muovere la testa per seguire ciò che avviene cogliendo pochi particolari, spesso costringendolo a subire il posto a sedere anziché sceglierlo. Siamo tornati indietro, siamo tornati alle seconda metà del 1600 quando il popolo, attirato dal teatro divenuto a pagamento e non più riservato a una corte, durante gli spettacoli parlava, mangiava e beveva per prestare attenzione unicamente alle scene in cui comparivano gli effetti o il cantante di grido. Nulla capiva, nulla restava nelle loro menti al di là dello spettacolo semplice cui aveva prestato, per pochi attimi, attenzione.

A questo scempio volli oppormi in quello che per me era l’unico modo possibile: andai all’Excelsior, il più evoluto dei cinema parrocchiali, non aperto tutti i giorni, ma che programmava film in lingua originale, cineforum e film a sere alterne, sempre pieno o quasi il sabato e la domenica. Nel frattempo, percepivo la crisi: i cinema del centro introdussero prima il riposo settimanale, cosa mai avvenuta prima, poi lo spettacolo pomeridiano slittò alle 15 anziché alle 14. Poi la prima apertura fu alle 17 fino a quella inesorabile delle 20, o 20:30.

Poi il parroco di allora, stanco di occuparsi di quella sala gestita a livello di programmazione direttamente da un tale Don Stefano Benni di Bologna, a capo di una struttura che gestiva molte sale parrocchiali dell’Emilia Romagna, fu ben lieto di cederla in affitto a un produttore piacentino, Giorgio Leopardi, che la restaurò e se ne assunse la gestione, trasformandola in cinema di prima visione. Erano anni in cui, nonostante tutto, il cinema poteva ancora rendere soprattutto coi film giusti. Ricordo il “Titanic” di James Cameron, in cui orde di ragazzine facevano la fila per vedere Di Caprio e uscivano alla fine del film in lacrime. Tutto durò qualche anno, fino a quando gli incassi non coprivano le spese e il cinema fu costretto a chiudere.

Il cinema all’aperto

A Piacenza, negli anni ’90 paralleli al mio impiego al President, i cinema all’aperto non esistevano più. Fu grazie a Diego Maj che ne comparve uno, al Macello Comunale e poi nel campo da calcetto in cemento del Liceo Respighi, salvo una parentesi nel cortile interno di Palazzo Gotico, a seconda degli anni in cui fu aperto. Tra i cinema estivi non si può citare quello di Casalpusterlengo che si svolgeva all’interno delle ex officine Peveralli, cui una società formata da tre o quattro amici aveva dato vita e in cui io avevo il solito ruolo di proiezionista.