Piacenza, una storia per volta

Il centro storico: nobiltà, locali mondani e circoli esclusivi

Anni '30: un quadro d’epoca del pittore Alfredo Soressi raffigura la ressa di fedeli dell’alta società piacentina e ci restituisce la realtà dell'epoca

Già nel 1926, anno in cui si tenne a Piacenza il trionfalistico Congresso Eucaristico, si avvertirono i sintomi del ritorno del cattolicesimo di massa, che “liturgicamente” ritornava ai lunghi cortei delle processioni che affollavano le contrade del centro. Il moderatismo di Pio IX°, rampollo della borghesia agiata e conservatrice lombarda (la famiglia Mastai era di antichissima e nobile stirpe, originaria di Crema già dal 1300), non dispiacque ai ceti del benessere ed alle caste del privilegio, specie le neo-guelfe. Anche nella diocesi piacentina degli anni ’30 la situazione socio-religiosa si adeguò alle forme sancite dal Concordato tra Stato e Chiesa. Si registrò un rilancio delle pratiche e della dottrina della fede; attorno alla “religione di Stato” fiorirono i circoli parrocchiali e l’insegnamento del catechismo, anche se successivamente gli oratori divennero occasione di conflitto con il Fascismo che pretendeva il monopolio educativo delle giovani generazioni.

“Dio-Patria-Famiglia” fu il motto “uno e trino” che restaurò la prassi del perbenismo, specie nei nuclei familiari della “buona società” del centro, non certo delle borgate popolari. Esiste a questo proposito un quadro d’epoca del pittore Alfredo Soressi che raffigurava con veristico virtuosismo coreografico, una scena di specifico interesse socio-religioso. Rappresenta “l’uscita della messa domenicale in San Francesco”: sul sagrato si snoda una ressa di fedeli, in prevalenza eleganti signore in abiti decò-floreali. Quel dipinto potrebbe essere considerato con un documento speculare della live high piacentina del tempo.

La conformazione edilizia del centro storico si può riscontrare dai rari documenti fotografici precedenti i disastrosi sventramenti e le demolizioni dei più rustici caseggiati che si articolavano con ritmica ed organica continuità, sulle aree dove sorsero poi, in fredda e simmetrica monotonia, i palazzoni dell’Inps e dell’INA.

Una carrellata crono-storica sulla vita e sui costumi socio-culturali, mondani ed economici del centro e paraggi dai primi del secolo scorso fino al primo dopoguerra, è impresa ardua anche dedicandovi anni di ricerche; le testimonianze documentali sono frammentarie e scarsissime, perdute nel flusso vivo e mutevole dell’esistenza di parecchie generazioni.

 

I protagonisti di cui era stato possibile ottenerne testimonianza, al tempo della stesura della “Piacenza popolaresca delle vecchie borgate” si contavano sulle dita di una mano. Tra questi Sandro Cerri che ho conosciuto quasi alla soglia dei cento anni: figlio di uno dei proprietari della fabbrica del ghiaccio, fu testimone diretto (anche con tante fotografie) della 1° guerra mondiale, come della Piacenza dei primi del ‘900 e degli anni susseguenti.

Da lui, di agiata famiglia borghese, era stato possibile reperire alcune testimonianze condensate in appunti necessariamente schematici, utili comunque ad abbozzare alcuni nomi dei ceti patrizi, borghesi, professionali, culturali, i quali svolsero ruoli tipici, anche con riflessi pittoreschi, sull’immaginario popolaresco, se non altro per il gran divario che correva tra le misere condizioni dei residenti delle borgate povere, miserevoli e quelle dei grandi privilegiati dal censo e dal lignaggio.

Senza la pretesa di compilare un elenco completo dei signori di sangue blu figuranti nella nostra araldica con le loro insegne blasonate, ne nominiamo alcuni che furono personaggi di scena sul teatro mondano del centro, frequentandone i locali eleganti, i circoli elitari, i salotti, i club, i ritrovi d’affari finanziari, un po’ meno quelli culturali ed intellettuali: i Radini Tedeschi, i Malvicini, i Cavalli Lucca, i Calciati, i Landi, i Barattieri, i Fontana, gli Anguissola, i Lucca Prati, i Marazzani, i Pallastrelli, tanto per citarne alcuni.

Tra le figure di vistosa sontuosità coreografica, primeggiava il Conte Dionigi Barattieri di S. Pietro in Cerro, con dimora in Strà ‘lvà. Costui era solito uscire per diporto su carrozze d’epoca, tirate da una quadriglia di cavalli con i cocchieri in livrea. Questa sua usanza da spettacolo in costume, in un periodo in cui le disparità di classe emergevano con stridenti contraddizioni sociali, suscitando amari rancori più che ammirazione, gli valsero l’appellativo popolaresco di “quatar cavai”.

Ma l’estroso Dionigi era fatto così, ne sembra si curasse gran che dei giudizi e delle opinioni altrui, essendo votato ai cerimoniali della bizzarria e della stravaganza. Inoltre non aveva problemi coniugali avendo scelto quale condizione anagrafica congeniale quella di scapolo e perciò amico dei celibi come lui impenitenti e spensierati. In tal senso si ricordava una delle sortite più spassose, architettate per “scornare” la comunità civica dei maritati.

 

Nella primavera del 1920, epoca piuttosto burrascosa nella lotta di classe, si prese lo sfizio di organizzare un festoso banchetto, invitando nel suo palazzo di via Taverna, quaranta giovani di varie famiglie piacentine, scapoli e bontemponi come lui. Fu un simposio di gran gala, con corteggio di servitori in livrea e la presenza di un ciambellano addetto all’osservanza del protocollo stilato a puntino nella scapestrata occasione. Accolti con tanta liberalità nella dimora di “quatar cavai”, non è forse superfluo dire che gli invitati mangiarono a quattro palmenti e bevvero a quattro gargarozzi?

Invece il ceto socialmente emergente nei primi decenni del secolo ebbe nomi che rievochiamo un po’ alla rinfusa: gli Acuti, i Vegezzi, I Chiapponi, i Bargoni, i rebora, i Bragheri, gli Orio, i Laviosa, i Perotti. Nel periodo del centro abbondavano i caffè. Qui ricorderemo quello “dei nobili”, poi denominato “Caffè grande” di cui abbiamo già scritto, ma che succintamente ricordiamo di nuovo.

Ne diede ampia notizia Leopoldo Cerri in un interessante opuscolo sulla vita cittadina dove trattava della chiusura di questo caffè (l’aromatica bevanda- scrive- che Voltaire adorò) che sorgeva accanto al vecchio Barino, nei locali della rinnovata sede del Credito Italiano. Ne fu a lungo proprietario Luigi Azzilli che gli diede il nome, ma poi il nuovo proprietario, Bertola, decise di cambiarlo in Caffè grande.

La sua signorilità eclissò quella degli altri locali cittadini. Qui si dava ritrovo l’elite della società piacentina, cosicché il popolo lo denominò “dei nobili”, non tanto perché fosse solo riservato alla clientela gentilizia, ma perché era quella più assidua e fedele e sovente fatta segno di salaci motteggi ironici e satirici da parte del popolino.

Prima del 1860 fu frequentato da elegantissimi ufficiali austriaci dai modi cortesi e civilissimi i quali, osservava il Cerri, “avevano la sola disgrazia di essere i dominatori”. A loro successero quelli dell’esercito italiano ed anche questa “mini invasione” seccò un poco gli habitués i quali si sentivano trascurati dal personale di servizio le cui attenzioni andavano invece ai combattenti del Risorgimento. Chiuse i battenti poco prima della 1° guerra mondiale. Nella prossima puntata altri nomi, locali e curiosità.


Si parla di