Piacenza, una storia per volta

Il cinema a Piacenza negli anni ‘60 e ’70: la testimonianza di un proiezionista

Il popolo che affollava i cinema piacentini: ci andavano proprio tutti, dai bambini agli adulti, quando avevano tempo libero a disposizione. Il cinema non aveva concorrenza

il cinema Roma negli anni '40

Con questa puntata proseguiamo con la testimonianza diretta di un protagonista della stagione “eroica” del cinema, quella di Alessandro Manfredi proiezionista. “Sugli autobus c’era l’autista e il bigliettaio. Al mattino c’erano gli spazzini e non le spazzatrici rumorosissime che oggi ti svegliano. C’erano gli impiegati, centinaia che lavoravano nelle industrie, nelle banche, all’ENEL o alla SIP (oggi Telecom) con le calcolatrici per compilare le bollette, gli addetti ai centralini. Solo al cinema, quelli standard, contemplavano la presenza di due o tre proiezionisti, due cassiere, tre o quattro maschere, tre o quattro baristi: dov’è finita tutta quella gente? Non c’è più, sostituita da una macchina ignorante e programmabile alla quale oggi si dà un’importanza eccessiva.         

L’elenco dei cinema piacentini di allora è impressionante: partendo da quelli più “rustici” abbiamo i parrocchiali. Fumeo (San Sepolcro), San Vincenzo e Sant’Antonino (in via San Vincenzo), Santa Maria in Gariverto (a passo ridotto, cioè una pellicola che anziché avere 35mm ne misurava 16), l’Excelsior (SS. Trinità). Poi c’erano i cinema estivi, come il Taverna, sempre in San Sepolcro, ma nei pressi del campetto da calcio dove ci si trasferiva per un paio di mesi. Quindi il Giardino ai Giardini Margherita dove oggi c’è uno spazio gioco per bambini, il Diana dalle parti di Viale Dante, senza contare il mitico Politeama, con sala allestita in uno spazio oggi irrecuperabile perché occupato dall’omonimo parcheggio.

Re delle seconde visioni era il cinema Roma, grandissimo, che proponeva film da poco dismessi dalle sale di prima visione a basso prezzo ed era sempre gremito di gente. I cinema “nobili”, infine, nei quali i bambini entravano raramente e accompagnati: il Plaza, oggi chiuso e sostituito da un parcheggio interrato, l’Apollo, anch’esso scomparso, in via Garibaldi che un tempo portava il cognome del “buon” Giuseppe, sostituito da un parcheggio con sopra appartamenti di varia metratura. L’Iris, gioiello della famiglia Leonardi costantemente attenta alle innovazioni tecnologiche, il primo a provare il “surround” con il film “Terremoto”. Scendendo verso piazzale Genova avevamo il Corso, quindi il Politeama, allora come tutti gli altri, monosala, il più grande. Anche se non l’ho mai constatato direttamente, mi dissero ai tempi (anni ’70) che un cinema l’aveva anche il Carcere, allora in via del Consiglio, e l’Esercito, nella Caserma del Genio Pontieri, appunto in via del Pontiere, ma sono dati che non sono in grado di verificare.

A parte i cinema parrocchiali o religiosi, quello che stupisce e oggi ha dell’incredibile sono gli orari di apertura: se si eccettua la domenica in cui Politeama ed Excelsior proponevano il matinée per i bambini alle 10:30, indistintamente tutti, dal Roma ai cinema del centro, erano aperti tutti i giorni dalle 14 alla fine dell’ultima proiezione che iniziava alle 22:30. Al cinema si andava perché non si aveva niente da fare. Alle 14 vi si recavano tutti quelli che aprivano i negozi alle 16 o gli studenti delle superiori prima di iniziare a studiare. Alle 16 ci andavano gli studenti per un intervallo dallo studio che avevano iniziato dopo pranzo. Alle 18 il pubblico era meno numeroso, ma era costituito per lo più da impiegati che avevano finito il lavoro, o pensionati. Gli ultimi due spettacoli erano i più gettonati, soprattutto quelle delle 20:30, in cui le sale erano quasi occupate dai ragazzi che prestavano servizio militare nelle numerosissime caserme in città (frequente vedere le ronde che camminavano lungo il Corso Vittorio Emanuele a controllarli). Il tutto senza contare quelli, non pochi, che al cinema ci andavano per dormire, proprio come il compianto Tano Cimarosa che, sempre in Nuovo Cinema Paradiso, alla maschera (Leo Gullotta) che gli dice “Oggi facciamo due pellicole” risponde “Che me ne fotte? Tanto per dormire ci vengo”. Alle 22:30 c’era il pubblico che non aveva necessità di alzarsi presto al mattino: molti medici, avvocati, ingegneri etc.

 

I cinema non conoscevano concorrenza se non tra di loro: non c’erano DVD, videocassette, Internet coi suoi Torrent e i film in streaming, per cui un film “bello” poteva restare in programmazione anche per mesi e addirittura, quando di grande richiamo, i gestori si organizzavano per proiezioni ad orari sfalcati: in un cinema proiettava il primo tempo, mentre l’altro il secondo e poi si scambiavano le bobine tramite un operatore che continuava a fare la spola in bicicletta tra un cinema e l’altro. Ricordo, tra i film che rimasero in programmazione per molto tempo, “Anonimo Veneziano”, al Politeama per più di due, forse tre, mesi.

Nelle sale di allora si poteva fumare. La cosa non dava problemi se la gente in sala era poca, cosa che non succedeva quasi mai, ma che rendeva l’aria quasi irrespirabile nel momento in cui i posti erano al completo: quando il proiezionista non riusciva a vedere bene lo schermo, attaccava gli aspiratori e nel giro di una ventina di minuti i gas venefici sprigionati dalle sigarette sparivano. Enorme la fatica delle donne delle pulizie che, al mattino, pulivano i pavimenti e cercavano disperatamente di deodorare gli ambienti.

Il giorno in cui il centro di Piacenza pullulava di bambini era la domenica: non avendo niente da fare, i bambini andavano al cinema e, se i ricchi si recavano a vedere i film appena usciti all’Iris o al Corso, quelli poveri o di ceto medio andavano soprattutto al San Vincenzo o al Sant’Antonino: costavano poco, erano vicini tra loro non più di 250 metri e soprattutto c’era la vecchina che vendeva le giuggiole a metà strada che, a fine giornata, probabilmente riusciva a realizzare un guadagno che le consentiva di vivere per tutta la settimana. Il Sant’Antonino era gestito da un certo “professor Rossi”, insegnante di ginnastica non so dove, che d’estate programmava film al Taverna, mentre il San Vincenzo era il cinema annesso all’omonimo collegio dei Fratelli delle Scuole Cristiane.

Ho scritto dei cinema in città, ma non di quelli di provincia. La realtà sociale di fondo di un capoluogo non era molto diversa da quella di un paese, caratterizzate da mentalità e professioni diverse: anche lì il problema di come far passare il tempo era sentito. E ogni centro, anche se piccolo, aveva il suo cinema, funzionante tutte le sere di tutti i giorni della settimana e, se si trattava di un paese di medie dimensioni, poteva avere anche due cinema oltre a quello parrocchiale. Per avere un’idea della mole dei film che circolavano tra la fine degli anni ’60 e i primi anni ’70 in Piacenza e provincia, basti pensare che i corrieri che portavano i film, i fratelli Oreste e Franco Curatti che avevano casa e deposito in via Coglialegna, facevano la spola tra Piacenza e Bologna tutti i martedì e i venerdì con un camion rimorchio. A volte non riuscivano a caricare tutto e allora il trasporto avveniva anche con il treno. Col passare degli anni, usarono il solo camion e poi, cessata l’attività, vennero altri corrieri che utilizzavano un furgone Fiat Ducato, per poi finire con un’autovettura tipo Volvo familiare, nei primi anni 2000.

 

IL POPOLO DEL CINEMA

Al cinema ci andavano tutti, “grandi e piccini” e di cinema parlavano. Come ne “il buono, il brutto e il cattivo”, il mondo si divideva “in due grandi categorie”, quelli che parlavano di calcio e quelli che parlavano di cinema. Cinema di tutti i generi perché la gente era onnivora e guardava indifferentemente “Quel gran pezzo dell’Ubalda” o “Il Decameroticus” quanto Yodorowsky, Visconti o Fellini. E il giorno dopo ne discuteva citando dialoghi e sequenze con lo stesso fervore, magari specificando quello che del tal film aveva capito poco. Molti compravano il quotidiano cittadino per leggere le recensioni dei critici, poco importa se fossero firmate dall’illustre Giulio Cattivelli o dall’anonimo Vice. Spesso gli articoli del critico venivano tenute da parte e lette dopo aver visto il film perché ciò che determinava la scelta della visione era il manifesto, il titolo, il regista e documentarsi prima non aveva senso. La scelta del film avveniva in base all’umore del momento, a seconda che ci si voleva divertire, o riflettere. Si creavano poi spontaneamente dei circoli, delle sètte invisibili e siccome spesso ci si fermava in strada a parlare, si conoscevano persone mai incontrate prima e si discuteva tanto sul tal regista e su quello che aveva voluto comunicare, quanto su chi fosse l’attore più bravo o se fossero migliori le forme della Fenech rispetto a quelle della Bouchet o della Bolkan.

Comunque sia, c’era un evento che molti aspettavano senza confessarlo apertamente se non agli amici più intimi: il cineforum, che solitamente si teneva all’Excelsior, poi diventato President e poi chiuso, tutti i martedì. Iniziava alle 20.30 o alle 21 per concludersi a notte inoltrata, seguendo alla proiezione un dibattito spesso interminabile in cui tutti, dai barbuti intellettuali alla gente più semplice, intervenivano esprimendo le loro opinioni mediati da un moderatore. Era nel cineforum che si abbattevano le barriere sociali e l’avvocato parlava col metalmeccanico, o l’ingegnere col netturbino. Nascevano rapporti sociali nuovi, spontanei, che potevano concludersi nello spazio di una sera, o proseguire in una sorta di para amicizia e stima reciproca.

Il popolo del cinema era quanto mai attivo: chiunque appartenesse a lui spesso si fermava alla proiezione successiva, se il film era di suo gradimento, o era ben disposto a pagare il prezzo del biglietto, che in quegli anni si aggirava attorno alle 5.000 lire, e ritornarci. Aveva tutto il tempo perché un film stava in programmazione per almeno 15 giorni. Inserisco qui un dato triste, ma che fa riflettere: il gestore della sala, tecnicamente chiamato “esercente”, decideva di farlo smontare quando la media degli spettatori scendeva attorno alle 150 presenze giornaliere. Oggi, quando si raggiunge tale cifra, l’esercente è contento.

Al popolo del cinema appartenevano anche quelli che, preferibilmente di pomeriggio, ci andavano non per guardare il film, non per dormirci, ma con l’unico fine di adescare ragazzini. Feci quest’esperienza per caso, appunto un pomeriggio, quando avevo 11 anni. Avevo chiesto a un mio compagno di classe se voleva venire con me per la proiezioni de “Il cervello” di Gérard Oury che avevo già comunque visto almeno quattro volte. Mi disse che non poteva e al tempo stesso mi invitò a portarmi dietro un cacciavite o una forchetta, senza spiegarmi il motivo, che compresi dopo 15 minuti dal mio ingresso in sala: un uomo, quattro file avanti a me, iniziò a spostarsi: prima di due, poi sulla mia stessa fila, quindi mi venne vicino sorridente e, dopo 5 minuti, mi mise una mano sulla coscia. Prontamente, la forchetta che mi ero portato calò con tutta la forza che avevo sulla sua mano. Devo avergli fatto molto male, perché si mise ad urlare, si fermò la proiezione e si accesero le luci in sala: scappai da un’uscita di sicurezza e non seppi più nulla. Da allora in galleria non ci andai più, se non per motivi tecnici e strettamente legati al mio mestiere.

Il popolo del cinema non si perdeva un film anche grazie all’importantissima funzione sociale che aveva il cinema Roma, oggi ridotto per sopravvivere a cinema a luci rosse: ha ancora una platea e galleria, quest’ultima oggi o per lo meno fino a una quindicina di anni fa inagibile, enormi, segno dei suoi antichi fasti. Come tutti gli altri aperto dalle 14 alle 20 circa, riproponeva i film che erano stati smontati da poco dai cinema di prima visione, ma a prezzo dimezzato: lì ho visto “L’inquilino del terzo Piano” e “Rosemary’s baby” oltre a molti altri che non ricordo. Era un cinema che, solo la sera, aveva una media di 250-500 persone su due spettacoli. Quel cinema aveva un magazzino imponente di manifesti che si erano accumulati nel corso dei decenni, i più vecchi erano quelli dei film di Macario; una raccolta che se fosse stata tenuta oggi avrebbe un valore enorme, ma negli anni ’90 circa, con la crisi che si faceva sentire il gestore, conscio che quei manifesti non avrebbe potuto riciclarli, li fece andare al macero pagando a sue spese un bilico, riempito dai suoi proiezionisti ben contenti di accumulare delle ore di straordinario. La memoria del cinema si è persa (anche) così.


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