Piacenza, una storia per volta

Il tempio del “Dio mestolo” nell’antica trattoria della Posta

Il giornalista Guido Fresco lo definì “il tempio del Dio mestolo”: era il locale di una laterale di via Roma. Qua, in via San Giuliano, fin dal 1800 era collocata l’antica trattoria della Posta

I fondatori del 1934

Prima di allontanarci dalla zona Trebbiola, piazzetta Santa Maria, San Savino, compiamo una piccola deviazione a sinistra, direzione Centro storico (su cui disserteremo), precisamente in una laterale di via Roma, in via San Giuliano dove fin dal 1800 era collocata l’antica trattoria della Posta. Fu la sede di quella che il giornalista Guido Fresco (professionista di rango, fondatore del periodico “La Settimana” che conobbi ancora studente universitario e che mi stimolò verso il giornalismo e la ricerca sociologica con preziosi consigli), definì “il tempio del Dio mestolo” in una gustosa rievocazione che ne ricordava la fondazione nel 1934 e la riedificazione esattamente settant’anni fa, dopo l’interruzione dell’attività durante il periodo bellico. Scriveva Fresco: “Se siete passati in via San Giuliano ed avete osservato l’insegna della trattoria della Posta, vi sarete certo accorti che essa rappresenta una vecchia diligenza trainata da focosi cavalli che vanno al galoppo ed intorno nevica. Il postiglione è imbacuccato, ma tiene ben salde le redini ed incita le bestie a non rallentare. Quest’insegna dipinta dal pittore Labò, testimonia che molti anni fa, nel cuore dell’Ottocento, qui convenivano le diligenze della nostra provincia recando la posta del mattino.

Se provate poi a mettere naso nel locale, avrete l’impressione di trovarvi in una specie di tempio bacchico dove gli echi sono temperati, affievoliti quasi da una veneranda prudenza. Qui i clienti giocano a scopa senza schiamazzare, senza stramaledirsi a vicenda. Inoltre noterete sulla parte di sinistra un albo incorniciato, fitto di nomi ed ornato, in fondo, dalla propiziatoria insegna “del mestolo”. E’ il tempio del “Dio mestolo”, un idolo gastronomico, suggestivo, potente evocatore di saporosi e caserecci agnolotti. Un fumo sottile, azzurrino, sembra lambirne ancora gli orli, spandendo il suo aroma sul biancore della carta come sopra una linda tovaglia. Signori, qui siamo nella sede della “società del mescolo”, siamo nel tempio sacro alle scorpacciate di nostranissimi “anvèi”. Così Fresco scriveva nel suo piacevole incipit che denotava una “penna di rango”, la stessa che sotto lo pseudonimo di “Paolo Pioggia”, sferzava (castigat ridendo mores) i piacentini nel suo editoriale del lunedì de “La settimana”.

Fresco così raccontava: “i sacerdoti di questo tempio sono intenti al gioco della scopa e del tresette; sui tappeti verdi splendeva il bianco smalto degli “scudlèi”; tra loro i mestolini, ossia quelli che si erano votati al “Dio mestolo” fin dal 1934, anno della fondazione e gli hanno giurato fedeltà ed ubbidienza incondizionata, pronti ad accorrere quando la diana suoni l’ora della battaglia (degli agnolotti s’intende!). Perché se non erriamo, mestolo ed agnolotti sono strettamente legati come lo sono, in filosofia, l’oggetto e l’idea, la casa e il suo concetto”.

Fresco ne tratteggiava la cronistoria della fondazione: “La signora Ermelinda (la cuoca e rasdùra della Posta) custodisce gelosamente il ligneo esemplare come la Ghirlandina di Modena conserva la famosa secchia rapita cantata dal Tassoni. I mestolini erano e sono tutt’ora gente bonaria ed allegra, che ha della vita un concetto godereccio, gente che alterna al grigio e monotono lavoro quotidiano (per la maggior parte esercenti, piccoli commercianti, impiegati, operai) alla gaiezza di un sano epicureismo”.

 

La società funzionò a pieno regime dalla fondazione (1934) fino al 1942, data della sua penosa sospensione di guerra. “Negli anni- scriveva Fresco- ha tenuto alti gli ideali della sua bandiera bianca: la tovaglia si intende, robusta “nei pericoli”, invitta nelle “battaglie”. L’odiosa guerra la costrinse ad una penosa sosta; il mestolo fu riposto nel malinconico cassetto di un armadio a sognare il profumo degli agnolotti, vittima di una tessera alimentare, povero Dio domestico relegato nell’ordine di penitenza e carestia bellica. Nel cielo, notte e giorno, solo il rombo cupo e dirompente della paura e della morte. Ma il sereno doveva alfine tornare e con esso un po’ di quiete e con la quiete, la farina americana, il grana ed il parmigiano a profumare nelle vetrine e nei banchi del mercato e con essi la splendida fioritura degli agnolotti. Cosa aspettate? a rimettermi in funzione, gridò la vocina del Dio mestolo? Il primo ad udirla fu il solerte Ferdinando Astorri che suonò la diana del raduno e la signora Ermelinda si rimboccò le maniche, ma per confezionare degli agnolotti grossi così!”.

Nino Massari che con il tenore Gianni Poggi era presidente onorario della confraternita gastronomica, vergò l’auspicio: “Alto il morale! Il 1949 vedrà il mestolo più forte di prima” e l’albo dei soci si riempì di nuovo. Il cuore del “fante di coppe” (Giuseppe Morelli) ex sergente della 1° guerra mondiale- chiosava Fresco- sussultò d’antica passione. Alzò con solennità il mescolo come fosse uno sciabolone contro gli austriaci e suggerì il motto “non bere è anormale, bere è sociale, bere troppo è da maiale”, facezia che doveva figurare sulle tessere”. Il nuovo presidente effettivo fu Giuseppe Gasparini, il segretario Pietro Motta, i consiglieri Francesco Dall’Ara, Vincenzo Freschi, Carlo Confalonieri, Alessandro Cravedi nonché il cassiere Lombardelli. Ma le donne furono escluse; annesse solo in occasione di particolari cene. L’unica necessariamente accettata nel sodalizio fu la signora Ermelinda, addetta alla confezione degli anvèi di gran classe.


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