Piacenza, una storia per volta

La fruttivendola “Tirisòna”, il pappagallo Loreto e Camozzi che per la fame mangiò un topo: i personaggi di via Trebbiola

Proseguiamo la nostra narrazione “trebbiolense” sempre attraverso la testimonianza di Gaetano Cravedi che vi risiedette per tutto il periodo della sua infanzia ed adolescenza e che con occhio attento e commossa memoria, ci ha lasciato un sapido affresco di questa parte di città

Proseguiamo la nostra narrazione “trebbiolense” sempre attraverso la testimonianza di Gaetano Cravedi che vi risiedette per tutto il periodo della sua infanzia ed adolescenza e che con occhio attento e commossa memoria, ci ha lasciato un sapido affresco di questa parte di città dai tratti sociologici particolari, caratterizzati soprattutto dalla sua eterogeneità. Laggiù oltre il tratto mediano di Cantone Trebbiola, risiedevano i Casalini, il cui capofamiglia fu provetto falegname, le sorelle Zilocchi le quali prestavano la loro apprezzata opera presso la tintoria “Sommi”: “Marièta”, la maggiore, andò sposa a Pirèi (Pietro Ghissoni) facchino alla stazione ferroviaria “l’om fòrt” della cui forza erculea si faceva gran discorrere da un capo all’altro della città, tanto da essere paragonato al Maciste del cinema muto.

Non erano valutazioni esageratamente infondate, benché di “sansoni” e “macisti” si favoleggiasse sovente a sproposito. Che Pirèi fosse uomo di non comune forza corporea lo provavano varie prodezze. Ne cito una: in mancanza dell’apposito sostegno o rialzo adibito alle operazioni di carico e scarico allo scalo merci della stazione, egli si fece mettere sulle spalle una brenta contenente quasi 200 litri di vino, equivalenti al peso di quasi due quintali.

E siccome la forza era dote comune in vario grado alla categoria dei facchini-scaricatori, un altro “maciste”, Lazzaro Chiappini, salì le scale al terzo piano di uno stabile recando sulle spalle un pianoforte! Istituzione del femminismo dell’età avanzata fu la “Maìn” (Maria), anziana fruttivendola le cui specialità stagionali erano i frutti di bosco che le portavano dalla montagna certi suoi fornitori. Ne andavamo- ricorda Cravedi- assai ghiotti, specie delle fragole, lamponi, mirtilli e simili. Essendo sorda, per annunciare il nostro accesso in bottega, bisognava dare scrolloni a più non posso al batacchio di una campanella sistemata accanto alla porta.

Acquistati i frutti di bosco per pochi centesimi, la “Main” ci intratteneva per fiutare una “presa ‘d tabac” marca Regina Macuba. Un pizzico di quella eccitante polvere color cacao era d’obbligo non rifiutarlo. Si divertiva un mondo a vederci starnutire in coro “sincopato”. Come tutte le vecchie popolane delle generazioni ottocentesche le quali recavano sempre in tasca la tabacchiera della “droga da naso”, anch’essa era convinta delle virtù benefiche della polverina esotica per le mucose nasali e per le vie respiratorie. Il suo unico poco estetico inconveniente- commentava Cravedi - erano però le narici spesso gocciolanti di fluido nerastro che doveva ripetutamente ripulire con grossi fazzolettoni colorati da tasca.

Più avanti abitava i Pizzaghi. Il padre era un prestante “brintùr” (brentatore), la madre faceva la “pàtera”(venditrice di mobili e suppellettili usate). Avevano quattro figli: Augusto, Alfredo, Dante, Alvino. Di fronte c’erano i Bisotti, annidati attorno alla “rasdùra”, la signora “Tògna”, alacre “scranèera” (impagliatrice di sedie) la cui mole fisica torreggiava sui membri familiari.

Al numero 35- ricorda ancora Gaetano Cravedi- casa unica a tre piani, abitavo io, i genitori, due sorelle ed un fratello. Il cortile della nostra abitazione dava sull’orto entro cui si ergeva un vetusto muro scrostato vicino al quale, con i miei amici di gioco (Pino e Mario Favari, Gino Rolleri, Zilocchi detto l’umèi ed altri) avevamo istallato una rudimentale altalena. Mio padre faceva il fabbro alle Officine Meccaniche ai Molini degli Orti, mia madre la sarta, mio fratello Angelo (che poi diventerà modellista meccanico con propria attività artigiana) apprendeva i primi rudimenti di intagliatore in legno alla bottega di una autentico artista, Adolfo Cattaneo, milanese trapiantato a Piacenza avendo sposato in seconde nozze Giulia Ughini di Pontedell’olio. Oltre all’arte dell’intaglio, il Cattaneo si dedicava a quella filodrammatica, diventando attore brillante alla “Filo” di S. Savino. Il figlio Ugo perì eroicamente sul fronte russo all’inizio del conflitto e fu decorato di medaglia d’argento al valor militare.

 

Fra i vicini di casa i fratelli Galileo, Davide e Bruno Fanelli il cui padre era maresciallo alla “Sussistenza”. All’ultimo piano la signora Giulia e la figlia Clementina. Le capitò- commentava con ironia Cravedi - una vicenda bizzarra.

A casa sua si installò un distinto “zerbinotto” meridionale e con la promessa di condurla a nozze si fece mantenere per alcuni mesi, ma poi, proprio alla vigilia degli “sponsali”, si rese “uccel di bosco”. In un vicino appartamento si svolgeva pure un’attività erotico- mercenaria “non ufficiale” sorta in concorrenza con i lussuosi postriboli di Cantone Filanda e Cantone Buffalari. Ma qui i prezzi erano decisamente più convenienti e così passavano “clienti” di tutte le risme.

In via Trebbiola funzionava la tintoria “Sommi” che dava lavoro a numerose operaie; non mancavano tipi allegri e burloni come “Santèi” Orcesi terzo di cinque fratelli, una specie di “viveur” in chiave macchiettistica, tipico esempio di schietto folclore vernacolo. I suoi fratelli vendevano il latte; Emilio, il maggiore aveva una trattoria. Santèi adunava nel cortile di casa i ragazzi della contrada per rallegrarli con spettacoli di burattini da lui improvvisati con inesauribile vene, stimolata anche da qualche quartino di vino per lubrificare l’ugola”.

Il tessuto sociale di Trebbiola appariva dunque, nella descrizione di Cravedi, fra i più vari ed eterogenei della vecchia Piacenza borghigiana. Cravedi ricordava ancora tanti protagonisti tra cui Benedetto Pedrazzini eccellente restauratore di mobili antichi il quale aveva a bottega un garzone che veniva chiamato “vescuv ‘d legn” perché era piccolo e ieratico come un prelato scolpito in un polittico d’altare. Nella bottega “confluivano” tutti i pettegolezzi anche i più minuti perché molti passavano lì per salutare e poi a chiacchierare con Pedrazzini che però evitava giudizi e sovente invitava a non esagerare e a non fare “processi sommari”.

Da non dimenticare, in questa fugace retrospettiva, la “Tirisòna” (Teresa), fruttivendola d’angolo tra Cantone Trebbiola e via Alberoni, bersaglio preferito delle marachelle dei bambini; nella sua bottega c’era Loreto, il pappagallo che segnalava con voce stridula e petulante la presenza degli avventori, essendo la padrona un po’ dura d’orecchi. La colorita rassegna di Cravedi citava inoltre il barocciaio Petracchi, “Pitìn” Cella (uno dei migliori calciatori del Piacenza dagli anni Trenta ai Quaranta), il calzolaio Balzarini, l’Ortolano Zilocchi detto “’l moru” per il colorito bruno della pelle; ed ancora Camozzi che, si dice, mangiò un topo adeguatamente cucinato per la gran fame ed infine Benedetto dal portamento e dal tratto signorile, proprietario dell’immenso orto di cui si è trattato all’inizio della rievocazione”. Qui si chiude via Trebbiola e zona S. Savino, ma nella prossima puntata ci dedicheremo ai Tansini, tre generazioni di fabbri e cantanti.


Allegati