Piacenza, una storia per volta

La Piacenza del primo Novecento nelle descrizioni di Giana Anguissola

Ci affidiamo alla sensibile penna della scrittrice piacentina Giana Anguissola, che visse la sua giovinezza in zona San Raimondo e fu testimone attenta del costume memorialistico della Piacenza dei primi del ‘900

Le prime gite in automobile

Riprendiamo il nostro periplo tra le borgate piacentine. Manca all’appello tutto il variegato microcosmo di San Raimondo, Beverora e zone limitrofe, il “dorato” Centro storico e vie annesse con personaggi, situazioni, curiosità ed altro. Ma stavolta non iniziamo a spron battuto per immergerci nella città dei nostri bisnonni ma, come introduzione a questi complessi e diversificati argomenti, ci affidiamo alla sensibile “penna” della scrittrice piacentina Giana Anguissola che visse la sua giovinezza in zona San Raimondo e fu testimone attenta del costume memorialistico della Piacenza dei primi del ‘900. Con le sue annotazioni che abbiamo ampiamente sintetizzato, ci immetterà successivamente anche nel centro storico cittadino.

Così scriveva la “nostra” Giannina: 1910-1930. Vent’anni. Fra quegli anni sbocciò l’infanzia, si svolse la giovinezza, maturò il destino e la personalità della generazione di piacentini che oggi si ritrova con i capelli grigi. E per loro Piacenza era così. Caserme, fabbriche di bottoni, agricoltori in piazza il mercoledì ed il sabato sotto i portici di Palazzo Gotico coi polli e le uova nelle ceste fra la paglia gialla. La Porta San Antonio, la Porta San Lazzaro ancora con le fenditure per le catene del ponte levatoio. Gli chalet dei tram del tram a vapore che attraversava la città per lo Stradone Farnese, via Venturini, viale Castello. I grandi signori dell’aristocrazia, i solidi signori della vecchia borghesia, il popolo clamoroso e fiero dei suoi borghi, con Borghetto in testa. La scuola Normale Femminile in un vecchio e tetro palazzo, molti collegi di monache con lunghe file di educande.

Il vescovo Pellizzari dal capello stinto e dai fiocchetti stinti, la mano con attaccato un grappolo di bambini a baciargli l’anello; camminava sempre a piedi e quando morì si scoperse che non lasciava nulla perché aveva già dato tutto ai poveri. Osterie sonore, alla domenica, come gagliardi alveari perché allora l’artigiano, l’operaio non andavano al bar o allo stadio; moglie tristemente trepide di un soggiorno troppo prolungato e di un ritorno alticcio, spiavano attraverso i vetri delle trattorie- osterie della Zocca e dei tre Gobbi.

Si mangiava il pesce fritto a Po, col divertimento dei treni per Torino che passavano solo al di là della rete del cortile dove le tavole erano apparecchiate con tovaglie di grossa tela bianca. E il salame alla Galleana nei piatti, con le scene oleografiche dei Promessi Sposi alle pareti; i tortelli ripieni di pasta di fagioli con l’occhio, di mostarda a San Lazzaro e a San Antonio, il dì della sagra. La coppa alle case di Rocco, sotto il pergolato a volta. Chi aveva il senso audace dello sconfinamento si spingeva a far merenda fino a S. Rocco, sulla sponda lombarda.

La passeggiata distensiva per vecchi e bambini, romantica per i giovani era il Wauxhall, piacentinizzato in Facsàl, il lungo viale piantato a platani alto sulle mura allora felicemente intatte, da una parte; dall’altra interminabili orti di conventi: San Chiara, Sant’Agostino, il Sacro Cuore, Sant’Anna fino alla Madonna della Bomba così chiamata perché una bomba austriaca s’incastrò accanto all’immagine senza danno alcuno. Intorno a quella bomba, lustrata sempre dalle suore, è stata costruita una cappella e intorno alla cappella l’Istituto per ciechi e sordomuti di mons. Torta suo fondatore. Pregando nel gran silenzio si udivano suonare il piano. Buffalo Bill coi suoi cavalli, il primo aeroplano richiamarono gente nel vasto prato tra il Foro boario e Porta S. Antonio dove un tempo sorgeva il Castello Farnesiano e quindi il X Artiglieria.

 

Suoni e fischi regolavano e indicavano gran parte gran parte della vita della città; le sirene delle fabbriche dei bottoni, le trombe delle caserme, i più lontani fischi dei treni in sosta ed in manovra, perché Piacenza era ed è città di coincidenze e smistamenti ferroviari. Allora i bottoni si esportavano, rappresentavano quasi tutta l’industria della città. Bottoni di corozo, di palma Dum. Le bellissime bottonaie seguivano ciabattando fiere sugli esegui marciapiedi di pietra il fischio di uscita, quello di entrata. Si chiamavano a gran voce, schiamazzando. Tenevano la mano sul fianco; erano padrone della città. Quando litigavano si tiravano i lunghi capelli demolendo elaborate pettinature a torre, seminando il lastricato di forcine. A brusio finito passavano solitari, pensosi i padroni e i capi: l’ingegner Rossini, l’ingegner Vaccari, l’ingegner Galletto, l’ingegner Perrault, il signor Biraghi, il signor Cress, il signor Dodi, il signor Rindi.

Al suono della libera uscita la città si inondava di soldati. Al suono della ritirata ne rimaneva in secca. Le lunghe note del silenzio cadevano sulla stanchezza di tutti, raggiungevano accorate, le estreme profondità dei cuori, le misteriose lontananze delle stelle. L’opera lirica era una passione quasi sportiva. I loggioni si gremivano, nei palchi brillavano, assieme ai loro gioielli, molti fra i nomi più belli d’Italia: Landi, Casati, Confalonieri, Douglias-Scotti da Vigoleno, Della Somaglia Marazzani, Volpe Landi, Caracciolo, Malvicini, Nasalli-Rocca, Barattieri, Cigala-Filgosi, Fogliani, Sforza, Trissino da Lodi, Pallastrelli, Pallavicini. Le carrozze a due cavalli, imbottite di raso, le lanterne di cristallo, i finimenti cifrati d’argento si avvicendavano sotto il portico dello splendido teatro Municipale, una scatola rococò bianca, azzurro ed oro, ideata da Lotario tomba.

I quartieri erano fazioni. Ogni tanto squadre di ragazzi che li rappresentavano facevan la sassaiola. Allora bisognava chiudere le persiane. “State attenti alle biciclette- ammonivano le mamme”. Nelle vie secondarie l’erba cresceva di sasso in sasso; la banda suonava in Piazza e per Ferragosto si facevano i fuochi artificiali.

Gli articoli per regali sicuri gli aveva Nastrucci. Il gioielliere fine era Amadori. Il pasticcere di classe Damino Grandi, il maggior fiorista Zucconi, il fotografo di grido Gregori (ne tratteremo ndr.), il farmacista tradizionale Corvi. Un vero cappello lo creava la Pallaroni, un abito charmant la Verdini; le scarpe Piendivalle. Un uomo chic non poteva fornirsi di camicie che da Neri Colombo, La signora esigente di tessuti da Zanetti. Andando su e giù anche tre volte per il Corso, alla domenica, da via nova a via Milano insieme con la madre, la ragazza spesso trovava marito. La sosta era al Bar Italia, con quei bei vestiti di seta, crespo, velo.

L’hotel San Marco poteva considerarsi internazionale: vi correvano gli ultimi soldi di molti antichi signori ed i primi soldi nati con la guerra, ma i bei palazzi erano sempre dei conti, marchesi e duchi di cui portavano da secoli il nome. Poi i bottoni cominciarono a diventare galatite, i cavalli dei motori. Altre industrie sorsero, languirono le vecchie. Nuovi nomi sostituirono gli antichi. Il wauxall non è più nulla, tratti di mura cadono, la città si allarga. Nella memoria, come un medaglione, la generazione che ora ha i capelli grigi porta in sé un ricordo: una miniatura intorno alla quale, a cornice, stridono pazze le rondini che oscuravano l’aria intorno al Palazzo Farnese generoso di buchi ed anfratti per i loro nidi europei che ora lasciano pressoché deserti perché gli insetti (il loro pasto) li distrugge il micidiale D.D.T”.