Piacenza, una storia per volta

San Giovanni, via Beverora e dintorni: i Cavalli, i “Fanalòn” e don Angelo De Martini

Una foto d'epoca in San Giovanni. Al centro il parroco Angelo De Martini

Grazie alla testimonianza che ci rese il baritono Piero Campolonghi, sempre fiero delle proprie origini popolaresche, proseguiamo con le testimonianze relative ai vari e numerosi nuclei familiari della zona ‘d San Giuvàn: ci raccontava dei Contini che avevano bottega di calzolai, di Anselmi detto “Radisa”; ed ancora della “Gigina” Malchiodi che gestiva una botteguccia di fruttivendola ed era sovente, per la sua bonacciona indole popolaresca, bersaglio quotidiano dei furtarelli degli “scugnizzi” locali; ma quando li acciuffava, non infieriva più di tanto con sermoni e rampogne, ben sapendo che si scatenavano più per fame, che per golosità voluttuaria.

E come scordare le sorelle Rossi, stiratrici di romantico sapore deamicisiano, il postino Vittorio Mainardi, i Del Panno. Il ragionier Agostino, dai variegati interessi culturali, rappresentò per decenni un esemplare forse unico di cultore ed amatore delle nostre gloriose tradizioni del “bel canto” lirico; fu corista di prim’ordine legato con sensibile modestia alle vicende del melodramma di una volta, amico di Poggi, di Labò e di molti altri bravi cantanti lirici. Di lui conservo ancora un’elegante copia della “Critica della ragion pura” di Immanuel Kant. Era ragioniere nella ditta di autotrasporti di cui era dipendente mio padre Oliviero, anche lui melomane come tanti della sua generazione. Me la regalò fierissimo perché avevo ottenuto 110 e lode con una tesi in filosofia della storia dicendomi: “Questa serve più a te che a me; io ho sempre la mia musica!”

In Cantone delle Asse, a due passi dall’imbocco, brillava nelle brume euforiche del buon vino nostrano l’osteria del “Neto” Civardi con retrostante gioco delle bocce, ritrovo di gioconde brigate. Siccome le osterie spuntavano - come oggi bar e pizzerie - ad ogni tratto di cantone e di vicolo, all’angolo di via Castello aveva una propria fedele clientela quella di Calza, mentre la panetteria Cammi limitrofa a Cantone dei Montani, fu poi trasformata in officina-garage.

In quelle adiacenze avevano pure ripostiglio di raccolta e vendita gli umili straccivendoli Cavalli, uno dei quali nel dopoguerra girava per la città reclamando l’acquisto di “oro vecchio”. Qui aveva domicilio la tribù di “Fanalòn” cosiddetta perché il padre, buon uomo, faceva il lampionaio all’epoca degli ultimi fanali a gas.

Nessuna allusione spregiativa dunque in quel nomignolo di spontaneo conio popolaresco. Qui dimorava anche la “Teresina” Pantaleoni, consorte del capomastro Lupi, mite e probo lavoratore dal “cuore d’oro”, sempre pronto a dare una mano a tutti. In quei paraggi apriva inoltre i battenti il locale gestito dall’ostessa Paola, bellissima popolana dalle sembianze e dai tratti, se così si può dire, di aristocratica femminilità. Donna che, più del vino, “faceva girare la testa” a parecchi clienti.  

E come non citare i fabbri Buttafava, i carbonai Curotti (di cui abbiamo già trattato in altra puntata dedicata ai vecchi mestieri), della bottegaia di generi alimentati detta “la Rosina”. Ed ancora, ma non possiamo certo essere esaustivi, si possono citare nel contesto retrospettivo di via Beverora-San Giovanni, l’ex calciatore Antonio Benassi con relativa latteria, il barbiere Marchionni i cui congiunti avevano bottega di mobili all’angolo sinistro di Cantone delle Asse.

Dirimpetto al muretto detto “dal signùr mort” affrescato dal pittore Richetti che in un certo senso segnava il confine tra via Beverora e San Giovanni, c’era l’osteria “Cavalli”. Sull’angolo con Cantone Maddalena aveva sede la “mercantèina” (merciaia)  con le figlie. Qui abitavano i Giusti che lavoravano al bottonificio Galletto, il “latèi” Rossi (angolo San Giovanni), i Bersani, Giovanni Giorgi che fu poi cameriere presso il Bar Grande Italia. Tipiche macchiette furono il “Mena” e il “Bacà”. E c’era tutta la stirpe dei Boledi prima che si trasferisse in via Venturini.

Viale Beverora, propaggine orto-botanica della zona, costituì dunque un comparto rionale a sé, essendovi allogati con rispettive funzioni istituzionali, la Stazione dei Carabinieri, l’Ospedale Militare, le cliniche Demaldè e Lodigiani.

In chiusura è poi doveroso rievocare anche la figura del parroco Angelo De Martini. Ogni borgata ne ebbe uno famoso per bontà e popolarità, da don Scala in Gariverto a don Veneziani in San Sisto. Qui in San Giovanni in Canale c’era don Angelo De Martini che, come don Veneziani. era (come lo ricordava il suo curato mons. Agazzi), “umile e povero parroco di affinità popolaresca, che ai poveri ed ai diseredati dei loro tempi, spalancarono il cuore pulsante di fraternità, senza mai ostentazioni formali” come altri preti di parrocchie cittadine “più altolocate”.

Era un prete di montagna, fino a che non “fu calato” in città, in san Giovanni in Canale. Di media statura parlava con voce dalle tonalità delicate, sommesse, sfumate; il suo eloquio era esente da orpelli oratori, sempre ricco di calore emotivo, di chiara concretezza concettuale, soprattutto quando insegnava dottrina religiosa nella scuola di “Arti e mestieri” “Coppellotti” in Cantone Maddalena”. 

I suoi ex parrocchiani serbavano di lui un’immagine di edificante semplicità, di amabile, candida bontà. Voleva bene a tutti, anche a coloro che si erano allontanati dalle pratiche religiose. Mons. Agazzi lo ricordava “fervidamente pio, paterno, amante della povertà, sempre vicino agli umili, ai poveri agli indigenti, ai sofferenti da lui sempre beneficiati con generosa profusione di opere di carità, in denari e viveri. Dava tutto quello che poteva ai bisognosi”.


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  • Via Beverora