Piacenza, una storia per volta

I tempi agri e giocondi ‘d San Giuvàn, Beverora e dintorni

“San Giuvàn” non può considerarsi come una sorta di appendice di via Beverora, ma parte integrante dell’estesa e spaziosa contrada che all’incrocio con via Venturini e l’attuale viale Malta (già Castello) assumeva la conformazione di una verdissima galleria d’alberi legittimandone la dizione di viale

Sulla sinistra il palazzo che attualmente ospita il comando provinciale dei carabinieri in via Beverora

Nella precedente puntata abbiamo utilizzato l’inimitabile penna della Giannina Anguissola (perdonate l’affettuosa irriverenza) per introdurci decisamente in San Giovanni, Beverora e dintorni. Quando la Giana era ancora bambina ed abitava in via Maddalena, sempre dentro questa parrocchia, viale Beverora era tutto un altro viale e si chiamava Stradella perché, da una parte all’altra del viale, nella parte finale, si stendevano in basso due larghi, favolosi orti dei Malchiodi sempre insidiati nei loro freschi prodotti di frutta, legumi e fiori dalla banda dei ragazzi del Piazzale.
“San Giuvàn” non può considerarsi come una sorta di appendice di via Beverora, ma parte integrante dell’estesa e spaziosa contrada che all’incrocio con via Venturini e l’attuale viale Malta (già Castello) assumeva la conformazione di una verdissima galleria d’alberi legittimandone la dizione di viale. Questa fascia viaria presentava particolari articolazioni, a cominciare dal tratto detto “dal Signur mort” in su, snodandosi a ventaglio in Molineria San Giovanni, Cantone Coglialena, Cantone Asse, Cantone dei Montani dove, per decenni fino alla chiusura, si trovava uno dei più “rinomati” casini della città, “roba” insomma al primo piano per gente danarosa.
Lo stesso ampio e sottostante sagrato della basilica gotica, la cui costruzione risale attorno al primo trentennio del XIII secolo, altro non era che lo sbocco tentacolare in Cantine Croce, legato alle vicende secolari del nostro “non dantesco” “bel San Giovanni” per via di quella famosa croce in ferro battuto che fin da epoca remota campeggiava nei pressi della fiancata sinistra del tempio a segnacolo socio-religioso della comunità, la quale ebbe nel popolare Oratorio il suo fulcro di vita formativa di cui fu animatore il giovane “pretino” don Torta per incarico avuto dal vescovo Scalabrini.

Fra i giovani che frequentarono l’Oratorio di San Giovanni vi furono, oltre al futuro vescovo di Loreto monsignor Gaetano Malchiodi, lo storico Emilio Ottolenghi, mentre G.B Nasalli Rocca, che diverrà poi cardinale a Bologna, ne fu il forbito vicedirettore. Molti sono i ricordi che affiorarono dalle testimonianze di anziani frequentatori di quel centro ricreativo-pedagogico. Giovanni Tosi, che abitava in San Sisto, ricordava a don Franco Molinari che quando abitava nei pressi «era tra i più fedeli e vivaci a frequentare gli antiquati giochi di allora, con la felicità dei genitori che sapevano che i loro figli erano in un ambiente consono. C’era l’altalena, la cavallina e pure le bocce ma erano terreno riservato ai grandi. Quando il maltempo non consentiva di scorrazzare nei cortili aperti, ci si rifugiava sotto un ampio porticato e ci si dedicava ad accese partite a dama. A volte veniva distribuita della frutta, in qualche occasione un simpatico vecchietto dall’aria arguta ci mandava in visibilio gratuitamente con i suoi burattini».

Animatore infaticabile di giochi popolareschi come la cuccagna era don Torta, che prima era stato parroco del soppresso tempietto di San Giuliano e a San Bonico, poi in Santa Brigida nell’autunno 1892. I Torta abitavano in Cantone delle Asse. La famiglia di colui che sarà destinato a fondare il benefico istituto della Madonna della Bomba, tanto caro alla generosa solidarietà assistenziale dei piacentini, era ultimogenito di dieci fratelli. Suo padre Giuseppe aveva un modesto laboratorio di ebanista-intagliatore proprio in questa via. Il successore di Torta, don Serafino Dallavalle, fu curato in Santa Maria di Gariverta del parroco don Scala. Una lunga straordinaria strada di amore verso i più poveri.

Preziose testimonianze sulla zona provennero anche dal baritono Piero Campolonghi, un vero e proprio archivio vivente di quel pullulante microcosmo rionale che fu “San Giuvàn” con il suo spazioso sagrato dall’ampia scalinata, e nel periodo duro e terribile della prima guerra mondiale, quando era parroco don Valentino Pagani. In quel periodo il tempio, per diversi mesi, fu addirittura adibito a magazzino della Sussistenza militare. Poi tornato alla sua funzione parrocchiale fu retto da Angelo De Martini. Campolonghi ricordava che «si trattava di due sacerdoti di genuino stampo evangelico». Don Pagani morì sul lastrico, in spoglia povertà francescana avendo elargito ai derelitti affamati il pane che si toglieva di bocca. 

Nel rustico e un po’ dimesso caseggiato detto “Casa Piovosi”, di cui era proprietario l’omonimo capomastro, fronteggiato dal mini-porticato - ricordava sempre Campolonghi - risiedevano, «oltre alla mia numerosa famiglia» (ma allora tutte lo erano), i prestigiosi imbiancatori Malchiodi, gli Zilocchi, gli Avanzi, gli Zucca, la guardia comunale soprannominato “Raflèi”, il povero cieco Celeste, i Cassinari, il futuro celebre pittore Bruno con il fratello, le sorelle e la madre Anna Labati che gestiva nei pressi della scalinata del tempio di istituzione domenicana una botteguccia di “patèra”, a livello di antiquato mobiliere povero, in comunanza con la Musetti.

Nelle adiacenze di Casa Piovosi operava la piccola e ingegnosa officina Schiavi, al cui interno per molti anni ci fu un magazzino di ricambi meccanici.
Il casamento degli imbiancatori Cavatorta era denominato “bastimeint” perché aveva la forma goffa di una nave edilizia, al cui pianterreno era allogato il magazzino degli attrezzi, e costituiva un vero e proprio spartiacque viario fra Cantone Molineria San Giovanni e Cantone Coglialegna. In questo duplice budello vicolare si imponeva con una sorta di decaduta sontuosità nobiliare, il settecentesco “Palazzone” affine all’edificio Gilè di Borghetto. Si trattava di una residenza animata dai nuclei familiari dei Musetti, degli Arioli, dei Molinari, dei Tavani: un luogo di vivace convivenza di schietto stampo popolaresco.
Nel medesimo Cantone Coglialegna svolgevano laboriosa attività artigianale i fornai Curotti e vi abitavano i Soprani, congiunti del celeberrimo “Cioti”, limonaio che prima di diventare popolare “macchietta” era apprezzato “battimazza” presso la fonderia Coghi e Dusi in via San Bartolomeo. In fondo al Cantone, d’angolo con via Castello, era situato un antico stallaggio adibito al ricovero di cavalli, di un brum di decoroso rango mondano, alcuni birocci di vario spasso stracittadino e campagnolo.
Ci fermiamo qui perché ci sono ancora tante figure da ricordare e le completeremo con la prossima puntata.


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  • Via Beverora