Piacenza, una storia per volta

San Raimondo e l’ort d’Malciòd

San Raimondo di cui nella prima puntata abbiamo tratteggiato alcune peculiarità storiche collegate alle barriere, può essere visto anche come modello di formazione, crescita, affermazione di genuine forze sociali che fecero della strada la loro palestra di vita

Il chiosco Cifò

San Raimondo di cui nella prima puntata abbiamo tratteggiato alcune peculiarità storiche collegate alle barriere, può essere visto anche come modello di formazione, crescita, affermazione di genuine forze sociali che fecero della strada la loro palestra di vita, addestrandosi agli stenti, ai disagi, alle ricorrenti carestie con una sorta di immaginosa coscienziosità, traendone lezioni di fiera e solida moralità umana e civile.

San Raimondo malgrado la ricca storicità delle proprie tradizioni, non sembra avere vissuto di rendita sul folclore e sui proventi inerti della tradizione indigena. C’è proprio a questo riguardo una pagina della scrittrice cittadina Giana Anguissola (che abbiamo utilizzato da poco per un primo suggestivo richiamo sulla Piacenza dei primi decenni del ‘900) nata e vissuta fino alle soglie della giovinezza in viale Beverora.

E’ lei che ci farà da “chaperon” in questa e nella successiva puntata con questo suo “memoriale dell’anima”, un pastello quasi naif della borgata San Raimondo al tempo della grande depressione economica sfociata dopo il ’29 a Piacenza (nel 1932 e di cui abbiamo già trattato) nel crack di alcune banche locali che gettarono nella disperazione alcune migliaia di piccoli e medi risparmiatori.

“Quattro case – scriveva - si ergevano fra il verde dei due orti: una casa rossa all’angolo con Cantone Venturini di chissà quanti secoli, appartenente ai Malchiodi, col mandorlo in giardino ed un finestrino ovale dietro il mandorlo. Una casa padronale. Talvolta la sogno ancora: non so se sto dormendo o a occhi aperti. Più in là quella rurale della Clementina, la “Clemèita”. A destra la grande villa liberty del dott. Demaldè e sul viale Castello, un’altra casa dei Malchiodi dove i prodotti degli orti si vendevano in una stanza a pianterreno, freschissima, pulita e buia.

Odo il rumore gracchiante e metallico del peso smosso sull’asta numerata della bilancia a mano. E risento nella tasca del grembiule la moneta da dieci che la mamma mi aveva dato per pagare. Allora con una moneta da dieci centesimi si poteva comperare tanta roba. Di qua, di là del viale c’erano i platani immensi; ci volevano cinque bambini per abbracciarne taluni tronchi.

Allora c’era la porta con i segni del ponte levatoio; ma era abbandonata. Non si passava da quella dei cancelli; tutta la zona del Foro Boario era un’avventura del West; sul Viale Castello c’erano gli ippocastani coi fiori a cero a maggio ed in ottobre le lucenti castagne amare luccicanti fuori dal riccio. Avevamo anche dei possedimenti; dei gentili possedimenti: nidi di biancospino nella siepe dei Malchiodi che andava dalla loro casetta di destra fino alla spelletta del rio “Durè”. I rami avevano formato nel loro bizzarro intrecciarsi dei sedili naturali. Quando erano in fiore noi ci annidavamo dentro. Ognuno aveva il suo; il mio era a metà della siepe; dentro c’era una stradina in discesa ed uno stagno con le rane, dove c’è adesso la Clinica S. Antonino.

 

Attorno vi crescevano i “vartìs”, gli asparagi selvatici; la povera Isabella, madre di Augusto Martini, capotreno della ferrovia Piacenza-Bettola, la Marietta pettinatrice, la povera Teresina sarta, me li pagavano un soldo al mazzo che spendevo dalla bottegaia all’angolo di Cantone Maddalena con viale Beverora, la signora Rosina”.

Viale Beverora era il discreto retroterra orto-botanico di San Raimondo. Quello che il candido lirismo dell’Anguissola ha consegnato ad un’ideale antologia degli affetti, dei sentimenti perduti. Ma dietro quello scenario tra poesia e cronaca, c’era tutta una folta schiera di personaggi: i ragazzi del “Durè” (oggetto della prossima puntata), quelli sopravvissuti alla tragedia di due guerre che hanno ora le chiome candite come i biancospini della siepe dell’orto dei Malchiodi a primavera.

L’Ort ‘d Malciòd, un eden fruttifero da defraudare, forse più per fame, rammentavano i protagonisti, che per ghiottoneria fanciullesca. Era la condizione di tutti. La razza del “Durè” ha dei nomi precisi: I Malchiodi,gli Ziliani, i Malvezzi, i Cavatorta, i Boledi, gli Sperzagni (tra cui il giornalista e poeta Enrico), i Viani, i Campolonghi, i Mandelli, i Sidoli, i Maccagni, i federici, gli Schiavi, i Cassinari, i Pantaleoni. Era la razza dei “self made man”, di quelli che si sono fatti da soli, alla scuola della vita. Gente che di quei ricordi si cibava, vivendone il fascino immaginoso del passato, nella luce estatica della giovinezza.

Quando la Giana era Giannina e abitava in via Maddalena, sempre sotto la parrocchia di S. Giovanni (davanti alla casa di Arisi il nostro grande critico d’arte), Viale Beverora era tutt’altro viale e si chiamava Stradella. Allora da una parte all’altra del viale alto, si stendevano in basso due larghi favolosi orti: quelli dei Malchiodi appunto, sempre insidiati nei loro freschi prodotti di frutta, legumi e fiori, dalla banda dei ragazzi del Piazzale. Questo il vasto regno della Giannina e di tutti i ragazzi del Casone scomparso, anch’esso con la latteria della signora Pina.

Ma torniamo a bomba.” San Giuvàn” non può considerarsi come una sorta di appendice di viale Beverora, ma parte integrante della estesa e spaziosa contrada che all’incrocio fra via Venturini e l’attuale viale Malta (già Castello) assumeva la conformazione di una verdissima galleria d’alberi giustificando così la primitiva qualifica di viale. A parte la questione toponomastica, di cui non ci cale più di tanto, questa fascia viaria presentava particolari articolazioni a cominciare dal tratto detto “dal signur mort” in su, snodandosi a ventaglio in Molineria S. Giovanni, Cantone Coglialegna, Cantone Asse, Cantone dei Montani.

Lo stesso ampio e sottostante sagrato della basilica gotica la cui costruzione risale attorno al primo trentennio del XIII° secolo, altro non è che lo sbocco tentacolare in Cantone Croce, legato alle vicende del nostro (e non dantesco) “bel S. Giovanni” per via di quella famosa croce in ferro battuto che fin da epoca remota campeggiava nei pressi della fiancata sinistra del tempio a segnacolo socio-religioso della comunità la quale ebbe nel popolare Oratorio il fulcro di vita formativa di cui fu primo animatore il giovane pretino don Torta per incarico avuto dal vescovo Scalabrini. Tutte zone oggetto della nostra prossima puntata.