Piacenza, una storia per volta

Il cinema a Piacenza dagli anni ’50: il boom e poi il declino

Sul palcoscenico del Politeama si esibirono anche celebri artisti della lirica, tra cui i piacentini Italo Cristalli, Piero Campolonghi, Gianni Poggi, Flaviano Labò, ma anche star della rivista come Macario, Rascel, Totò, Nino Taranto, Carlo Dapporto e Wanda Osiris

Il cinema "Italia", poi diventato cinema "Corso"

I Leonardi ebbero in affitto il Politeama fino al 1935-36. Qualche tempo dopo passò al dottor Bruno Bergonzi al quale, alla fine degli anni ’60, subentreranno i figli Nino ed Augusto che lo rivoluzionarono, trasformandolo in una multisala; i Bergonzi trasferirono i loro interessi a Parma e divenne di proprietà di Giancarlo Leonardi. Nel dopoguerra il "Politeama" ebbe anche, per molte stagioni, una versione estiva all’aperto con poltroncine di vimini nell’ampio giardino che precedeva l’ingresso del cinema, oggi in parte occupato da quella costruzione con le finestre ad "oblò" ed in parte dallo scivolo che porta ai garage sotterranei e con lo schermo piazzato verso via San Siro. 
Sul palcoscenico del Politeama si esibirono anche celebri artisti della lirica, tra cui i piacentini Italo Cristalli, Piero Campolonghi, Gianni Poggi, Flaviano Labò, ma anche star della rivista come Macario, Rascel, Totò, Nino Taranto, Carlo Dapporto e Wanda Osiris.
Al Politeama, nel 1935, Egidio Carella, rappresenta la prima di "Oh che rattasàda", nel ’54 di "Col còr in gùla", nel ’57 "Divieto di afflizione" e nel ’58 "L’ha mangià ‘l mlon". Nel dopoguerra, al Politeama furoreggiò l’avanspettacolo che precedeva la proiezione di un film di seconda o terza visione.
Il cinema nel frattempo evolveva, migliorò il sonoro e quindi venne il colore. Finito il tempo del film a puntate, che costringevano l’operatore ad altrettanti interruzioni ed altrettanti riavvolgimenti e montaggi di pellicola (Ma per tutto questo attingeremo alla preziosa testimonianza del proiezionista Alessandro Manfredi).

Nel 1932, a dodici anni dalla sua inaugurazione, l'Iris di Corso Vittorio Emanuele viene completamente ristrutturato ed adeguato alle mutate esigenze del nuovo cinema e soprattutto del nuovo pubblico. Nel 1941, anche il "Cinema Italia" rinunciando alle civettuole balaustre floreali ed agli altri fregi liberty, si trasformerà totalmente e da allora si chiamerà "Corso".

Nel 1942, in piena guerra, Francesco Leonardi aprì, costruendo su una zona su cui prima sorgevano casupole e stalle (di cui abbiamo trattato per Porta Galera) il cinema "Roma" in via Capra.
Terminata la guerra iniziò la ricostruzione e anche i cinema si rifacevano il look, e la gente tornò a ripopolare le sale cinematografiche, compresi i cinema estivi all’aperto. Oltre al Politeama, c’erano anche il "Diana" in viale Dante ed il cinema "Giardini" davanti ai giardini Margherita, un’area all’aperto vastissima. All’aperto anche il "Taverna" sorto nel cortile del palazzo Barattieri in via Taverna appunto.
Alla fine degli anni Cinquanta arrivò il cinema-teatro Plaza sotto Palazzo della Borsa. Lo frequentavo ragazzino ma solo all’ultimo spettacolo una volta la settimana perché come bigliettaio c’era un cugino di mio padre che, visto che la cassa era ormai chiusa, mi faceva entrare di straforo. Si era ormai, all’epoca del cosiddetto boom economico. 

 

Anche le sale parrocchiali ebbero un grande successo: c’era il "Fumeo" in San Sepolcro, il "Sant’Antonino". In San Vincenzo tenne banco per lungo tempo il "Cineforum" animato dall’allora don Ersilio Tonini (poi cardinale) e da Giulio Cattivelli critico cinematografico di Libertà. Qui ci si andava di domenica, grazie alla “paghetta”, prima al San Vincenzo, poi al Sant'Antonino. Fuori l’inevitabile fermata dalla vecchina delle giuggiole, o dei rotoli di liquirizia. E qui, purtroppo, abbiamo consumato anche le prime sigarette, acquistate nelle bustine dal vicino tabaccaio.

Nel frattempo i cinematografi si rinnovarono ulteriormente. Il "Garibaldi", prese il nome di "Apollo" ed anche il "Corso" che già si chiamava così, fu completamente rinnovato, mentre cominciava un’altra epoca d’oro del cinema italiano con registi come Fellini, Rosi, Petri, con film di grande spessore culturale e sociale che hanno aiutato la società a crescere culturalmente. Ma giunse anche la crisi, con la Tv ormai onnipresente in tutte le case:  oggi con i supporti telematici, acquistare o noleggiare film on line o in abbonamento, ci ha portato ad abbandonare le sale cinematografiche che però, con le multisale, riescono ancora a tenere.

Ed ora la testimonianza diretta di un protagonista della stagione “eroica” del cinema, quella di Alessandro Manfredi, proiezionista, che vi proporremo integralmente proprio per la sua originalità, quindi con un ulteriore appuntamento sul nostro blog.

 

IL PROIEZIONISTA
A Remo Cravignani (“Il Remo”), Giuseppe Ferrari (Pinetto) e Enrico Leonardi (Enrico).

Un pomeriggio come gli altri.
Guardo un film in mkv sullo schermo del mio computer. Da tempo non accendo la televisione, pur pagando un canone che è un oltraggio al buon senso visto ciò che questo schermo collegato a un’antenna mi propina. Non vado al cinema seduto in sala dal 2004 quando, incuriosito dal regista, sono andato a vedere “una lunga domenica di passioni”, titolo tradotto orribilmente, di Jean Pierre Jeunet. Quando mi capita di vedere vecchi film, degli anni tra i ’60 e gli ’80, mi ricordo delle sale in cui l’ho visto o l’ho proiettato, della gente che allora le popolava a tal punto che Dino Risi, a Vittorio Gassman in “Anima persa”, faceva dire “Come sono vuote le chiese. Solo i cinematografi sono pieni. È lì che la gente va a confessarsi”. A questo pensavo in un pomeriggio anonimo come tanti, in cui stanco per il continuo alternarsi di giornate primaverili ad altre autunnali che mi rendevano incapace di concentrarmi su altro, mi guardavo un film italiano del 2016. Pensavo che quel modo di proporre contenuti per immagini, quel modo di fruire, non mi apparteneva più. Fu così che mi venne in mente di scrivere qualcosa, ricordi soprattutto, per rendere una testimonianza di un tempo, di una mentalità, di persone non più in vita, ormai perduto per sempre, come accade a chi guarda le fotografie dell’Archivio Bettman che ritraggono gli operai sull’Empire State Building allora in costruzione.

Conobbi il cinema tramite il mio nonno paterno, colonnello della Fanteria destinato ad essere promosso generale,  quando avevo sei anni. Era una sala oggi scomparsa, come tante e troppe, che si trovava di fianco alla chiesa di San Sepolcro, che faceva parrocchia e comprendeva una zona molto popolare e per usare termini odierni, “difficile”, gestita dall’ordine dei Salesiani che avevano messo in piedi una struttura atta a tenere bambini e ragazzi lontani dalla strada. C’era un oratorio con bar, due campi da calcio, un cinema all’aperto e uno al chiuso, quello in cui ero entrato, che fungeva anche da teatro, oltre che vere e proprie aule, con tanto di banchi e sedie, per il catechismo. C’era anche una stanza con il pianoforte per improbabili riunioni di un coro che non ho mai visto né sentito. Tutto questo per oltre un centinaio di bambini e ragazzi disciplinarmente difficili da contenere, ma con una spontaneità e soprattutto un codice morale che, magari discutibile, rispettavano.


Ricordo che, alla cassa, il biglietto costava 30 lire, ma non il titolo del mio primo film perché guardai al massimo tre o quattro sequenze, incuriosito com’ero dalle due finestrelle della cabina di proiezione dalla quale da una usciva un enorme raggio luminoso che si muoveva in continuazione facendo cambiare le immagini dello schermo e dall’altra si poteva intravedere il viso di una persona che a tratti guardava il film e a volte armeggiava vicino a quella macchina misteriosa che il film lo proiettava. Quel cinema si chiamava “Fumeo”, forse in omaggio a una nota casa che costruiva proiettori cinematografici dal 1959, ma tutti lo chiamavano “San Sepolcro”. Per farla breve, completamente disinteressato al film che tutti gli altri seguivano con passione, chiesi a mio nonno di portarmi nel posto da dove “usciva il film”.

Il proiezionista, che tutti chiamavano “quello che fa il cinema” e pochi, tecnicamente, l’operatore, era don Claudio, uomo robusto che da solo riusciva a tenere a bada anche cinquanta bambini solo con lo sguardo, perché aveva mani che sembravano badili, sempre pronte a calarsi sugli indisciplinati. Ricorderò per sempre la cabina di proiezione, quell’odore, il proiettore enorme, un Prevost p40, lo stesso usato da Tornatore nella prima parte di “Nuovo cinema Paradiso”, quella in cui il proiezionista non è ancora Totò, ma Alfredo. È sorprendente come il regista, ex operatore anche lui, sia riuscito a rendere l’atmosfera di quella macchina che per un bambino di sei anni aveva qualcosa di assolutamente magico: da ferma era misteriosa, con tante leve, pulsanti, manopole, rocchetti e una manovella. Accesa sviluppava una luce bianca, fortissima e come veniva avviata a regime faceva un baccano notevole. Magia pura.

 

Non c’era solo don Claudio che “faceva il cinema”: mi pare ce ne fossero altri due e farmi accettare da loro non fu facile; ricorsi a degli stratagemmi, tipo passare comunicazioni dalla cassa, portare manifesti e i “provini”, chiamati più propriamente “presentazioni” e oggi, in virtù dell’anglo-colonizzazione subita, “trailers”. Passai sei mesi senza toccare nulla, solo a guardare, cercando di capire ogni movimento, ogni dettaglio di quella macchina e non solo: i film arrivavano in rulli che poi occorreva assemblare nel loro corretto ordine, pena immagini capovolte, audio al contrario oppure sequenze che si invertivano. Due o tre rulli formavano una bobina, il famoso “primo” o “secondo tempo” che poi andava riavvolto e riproiettato.

Dopo sei mesi, mi fu concesso di utilizzare la macchina in una proiezione di prova, quella che ogni film doveva passare, con don Claudio o il prete di turno seduto in sala. Solo apparentemente quella proiezione avveniva per assicurarsi che il film fosse stato montato correttamente: in realtà, doveva passare la censura del prete, che ordinava puntualmente, picchiettando sul vetro della finestra di proiezione, indicando il punto d’inizio e di fine del taglio: erano interessati alla censura baci, carezze, scollature, danze orientali e simili. I tagli venivano poi messi da parte e reincollati alla pellicola in fase di smontaggio, cioè quando a film finito di proiettare veniva nuovamente ridotto in rulli, inscatolato e riconsegnato al corriere.

Rimasi in quel cinema fino all’età di 14 anni, guardandomi praticamente tutti i film classificati “per tutti”, o più tecnicamente di categoria da I a II classificati dal Centro Cattolico Cinematografico. Ho visto tutti i peplum, i cartoni animati di Hanna & Barbera, tutti i western americani di John Waine e parte di quelli italiani, i cosiddetti “western spaghetti”, termine che andrebbe eliminato dai libri di cinema perché eccessivamente spregiativo. Ho avuto tra le mani e ho assemblato personalmente “Per un pugno di dollari” e “Per qualche dollaro in più”, per citare i due più famosi che ho amato allora (ma anche oggi). Film proiettati due volte, alla proiezione delle 14, delle 16, che avveniva solo se la sala non conteneva tutti al primo spettacolo. Un ricordo particolare va a “Il giorno più lungo”: tre ore di film smontato a mano nel senso che l’avvolgifilm, l’attrezzo che veniva usato per riavvolgere la pellicola, montare e smontare il film, si era rotto per cui lo dovetti arrotolare a mano impiegandoci otto ore.


La cabina, e più avanti imparai che quello era prerogativa di tutti i cinema “a prescindere”, era un forno d’estate e una ghiacciaia in inverno dove tornava molto utile la lanterna, vale a dire quella parte del proiettore deputata a fare da sorgente di luce per la proiezione. A quei tempi, gli anni ’60, la lanterna era a carbone, cioè conteneva due “grissini” di carbone ricoperti di rame che fungevano da elettrodi in modo da costituire l’arco voltaico. Il calore che generava era simile a quello di una stufa e, purtroppo, occorreva starle vicino costantemente perché i carboni si consumavano e occorreva tenerli a una distanza fissa tramite apposite manopole. 
Non si poteva abbandonare il proiettore per più di un minuto pena un abbassamento della luminosità sullo schermo, se non addirittura il buio, cosa che accadeva quando tra i due carboni la distanza si faceva eccessiva. Vero è che c’era il cosiddetto “avanzamento automatico”, una vite senza fine con un motorino che li faceva avanzare automaticamente, ma era inaffidabile e al massimo consentiva all’operatore una lontananza dal proiettore per non più di due minuti, cinque al massimo nei proiettori dei cinema nobili, quelli di prima visione di cui tratterò tra breve.


Oggi è impensabile anche perché la pellicola non esiste più, ma a quei tempi il film aveva una vita lunghissima e andava trattato con ogni cautela: terminato il ciclo di proiezione nei cinema di prima visione, passava a quelli di seconda nel giro di un anno, poi a quelli di terza e di quarta, dopo di che raggiungeva le sale parrocchiali. Non si poteva rigare, non si doveva strappare in proiezione e le giunte, fatte prima con una miscela a base di acetone e poi con un nastro adesivo studiato espressamente per lo scopo, dovevano essere perfette. Quando un film veniva restituito, c’erano presso i magazzini le verificatrici che, con un tavolo passafilm munito di piatti su cui venivano riavvolti i rulli, controllavano lo stato della pellicola e i fotogrammi con uno speciale contatore: se ne mancavano, partiva la contestazione e le relative multe. Impossibile tenersi un pezzo di film per sé, anche se di una decina di centimetri.
I film giravano per tutta la regione e la loro età la giudicavi dalle ammaccature sulle scatole di metallo e sulla loro lucentezza. Partivano nuove, perfette come la carrozzeria di un’auto nuova, e via via si deformavano con ammaccature più o meno rilevanti fino ad arrugginire. I proiezionisti migliori erano nei capoluoghi di regione e i più bravi riuscivano a proiettare lo stesso film anche per un anno intero senza farlo mai rompere, tenendo i proiettori in condizioni perfette. Non ho vissuto l’epoca delle pellicole infiammabili, quelle costituite da un composto di nitrocellulosa al 10/11 per cento di azoto plastificata con canfora: dalla sua combustione, se disgraziatamente avveniva, si sviluppava un gas che, mischiato in certe proporzioni con l’aria, finiva per diventare esplosivo. Ho conosciuto quelle ininfiammabili, in triacetato di cellulosa che, anziché prendere fuoco si scioglievano, fondendosi.
Approssimativamente un film durava dieci, quindici anni e per tale periodo veniva sempre proiettato. Nel 1967, al Fumeo, ricordo “Noi siamo le colonne”, con Laurel e Hardy, uscito nel 1940. Venne poi il polyestere, studiato per reggere gli sforzi di trazione dei proiettori di ultima generazioni che vedremo: teoricamente il polyestere avrebbe dovuto e potuto anche rappresentare la fine delle rotture della pellicola in macchina e, quindi, avere una vita più lunga. Soprattutto, avrebbe evitato a chi vedeva un film vecchio la pena di immaginarsi i dialoghi interrotti e troncati dalle troppe giunte dei film in triacetato.


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