Cronaca

Armi e chili di droga, chiesti 13 anni per un albanese

Il pm Colonna chiede anche la condanna di un piacentino a 3 anni per ricettazione. Nessuno ha raccontato il vero, secondo la procura. Il blitz della Finanza a San Lazzaro nel 2017. La difesa del piacentino: non c’è reato. Il difensore dell’immigrato: inutilizzabili le dichiarazioni dello zio che lo ha denunciato e quelle della Finanza

Pesanti le richieste di pena della procura al processo che vede imputati un albanese e un piacentino. Per Adriatik Merhori, 46 anni, accusato di concorso in detenzione ai fini di spaccio, detenzione di armi e munizioni, ricettazione delle armi, di elettrodomestici e di 800 paia di scarpe (tutti gli oggetti sono risultati rubati), il pm Antonio Colonna ha chiesto la pena di 13 anni di reclusione e la multa di 75mila euro. Armi e droga erano stati trovati dalla Finanza nell’abitazione del fratello Altin, 44 anni, arrestato il 16 febbraio 2017, a San Lazzaro. Per Alessio Boselli, 47 anni (che lavorava nell’azienda di trasporti di Adriatik nella zona della Caorsana), la pubblica accusa ha chiesto la condanna a 3 anni di reclusione e 500 euro di multa. Il piacentino è accusato solo di ricettazione.

Davanti al collegio presieduto da Stefano Brusati, a latere Fiammetta Modica e Sonia Caravelli, è iniziata la discussione. Dopo la requisitoria del pm, è stata la volta degli avvocati difensori Vittorio Antonini (che assiste Adriatik Merhori insieme con Mauro Pontini, quest’ultimo terrà l’arringa e farà la richiesta fra una settimana quando terminerà il processo) e Annalisa Cervini, che difende Boselli. Per quest’ultimo, Cervini ha chiesto l’assoluzione.

In tre ore, il pm Colonna, ha ripercorso la complessa storia che ha portato al ritrovamento, in un condominio e in un garage di via Sacconi a San Lazzaro, di 2,8 chili di cocaina, di 9,5 di marijuana, di due pistola (una Beretta calibro 7,65 e una Browning 6,35), di 137 cartucce per la 7,65 e di 42 per la 6,35, un caricatore, 5 giubbotti antiproiettile. Le due pistole sono risultate rubate nel 2012 e 2013. Nel magazzino di Adriatik, in via Scrivani, i finanzieri avevano poi trovato 29 elettrodomestici (di cui 23 rubati), 865 paia di scarpe (Dr. Scholl’s) destinate, secondo la procura al macero e che sarebbero state rubate, 87 pneumatici.

A far finire in carcere i fratelli Altin e Merorhi era stato lo zio Moustafà Yhihani, che li aveva denunciati alla Guardia di finanza, dicendo che in quella casa c’erano droga e armi. Per lo zio, il pm Colonna ha chiesto la trasmissione degli atti alla procura perché si indaghi sull’uomo per calunnia verso i finanzieri. Lo zio, sentito al processo, aveva detto che i militari avrebbero commesso un falso su un documento. Altin, nella precedente udienza, aveva detto ai giudici che si trattava di una vendetta dello zio verso Adriatik, perché non gli avrebbe dato 400mila euro, denaro proveniente da un’assicurazione in seguito a un incidente stradale. Lo zio lavorava, all’epoca, per Adriatik come autotrasportatore.

 

L’ACCUSA

«E’ un processo caratterizzato dalle mancanze» ha esordito il pm. Manca la chiamata in correità, «e più persone lo hanno fatto» di alcuni, ma poi si è sciolta come neve al sole. Manca la difesa di Adriatik che non ha mai detto di essere innocente, «se io non avessi fatto nulla, non avessi cioè saputo di armi e droga in casa mia, lo avrei urlato». «Se Adriatik tace, Altin parla» ha continuato Colonna, ricordando le condanne del secondo a 15 anni per l’omicidio e la distruzione del cadavere di un giovane albanese all’interno di un giro di prostituzione, nel 1997 a Sesto San Giovanni (ora è in Cassazione) e a 8 per la detenzione di droga e armi a San Lazzaro. Nel tentativo di scagionare il fratello, prosegue il pm, ha detto che droga e armi erano dello zio affermando che «gli aveva promesso 3mila euro la mese per tenergli la cocaina in casa. Mio fratello non sapeva cosa ci fosse in casa e nel garage aveva detto. Ma tutto questo è vero?» si domanda il pm. Altin aveva detto di aver cambiato le serrature, ma non risulta. Prima disse che la coca era dello zio, poi ha detto che era di un altro albanese, un grosso spacciatore coinvolto in una operazione della Finanza di Varese. In aula disse di aver portato lui la droga in cantina e che fosse dell’albanese, ma mesi prima aveva negato. Se le armi erano dello zio, come mai su un calcio di una pistola era stata trovata un’impronta di Altin? «Altin non è credibile» ha rincarato il pm.

Colonna si rivolge poi ad Adriatik: la casa a San Lazzaro è stata affittata ad Altin, ma le proprietarie hanno sempre visto solo Adriatik, che si occupava di tutto. Anzi, aggiunge il pm, Adriatik propone di affittare la casa al fratello e il box a Boselli «cioè a un terzo, che senso ha?». La merce stoccata nel capannone, elettrodomestici e scarpe, era rubata. Le scarpe, poi, erano destinate al macero come è emerso da un codice particolare sulle scatole. La società Adelaide, di Adriatik, effettuava trasporti anche per grandi gruppi commerciali.

E il nome di Adriatik spunta anche in alcune telefonate con l’albanese arrestato nell’operazione Patrasso, a Varese. Questo era uno spacciatore di grosso calibro, sostiene Colonna, e i rapporti fra di loro non erano certo di lavoro. Una caratteristica del pusher era di acquistare in quantità, chili, e poi farla tenere da altre persone. Nella telefonata dopo l’arresto di Altin, Adriatik lo informa che il fratello era finito in carcere«“lo hanno ricoverato ieri in ospedale”. Perché informarlo dell’arresto se i due erano solo in affari?». Per il pm un altro indizio è un colloquio intercettato in carcere, dove Adriatik si chiede «chi ha fatto la spia?».

Per ultimo, Colonna analizza il ruolo di Boselli: «Ha sempre detto di non saper nulla di quella merce e di tutte le carte carburante ritrovate nel magazzino. Eppure era merce molto visibile e occupava molto spazio». In una telefonata dice di lavorare lì da 10 anni «eppure non si è mai accorto di nulla». E, dice il pm, Boselli non sapeva niente nemmeno dell’affitto di via Sacconi, stipulato a suo nome.

 

LE DIFESE

La prima a intervenire è stato l’avvocato Cervini, difensore di Boselli. Per lui ha chiesto l’assoluzione, perché non c’è il reato di ricettazione che gli viene contestato. Il materiale trovato nel capannone risulta rubato: ma chi lo ha mai denunciato? Chi ha mai chiesto i danni? «Boselli ha sempre tenuto un atteggiamento collaborativo - ha continuato Cervini - ha sempre detto la verità, in tutti gli interrogatori, e non ha mai cambiato versione. Ha spiegato subito alla Finanza di aver sentito della “vendetta dello zio”. E’ un’indagine lacunosa e parziale. Perché la procura non ha mai indagato altre due persone vicine ad Altin? Inoltre, non si è mai indagato sulla provenienza e sulla destinazione dei tutta quella droga». Cervini ha poi ricordato che Boselli, sentito come testimone dai finanzieri, aveva subito detto di non saper nulla del contratto di affitto «e quella che dovrebbe essere la sua firma era solo uno scarabocchio». Infine, l’avvocato ha escluso collegamenti tra Boselli e la merce ritrovata: «Le scarpe erano sì modelli vecchi, ma c’è un mercato parallelo per questo genere di oggetti».

L’avvocato Antonini, invece, ha puntato sulla inutilizzabilità delle dichiarazioni dello zio, di un albanese, di un maresciallo della Finanza e ha spiegato il perché del silenzio di Adriatik. Antonino, sgranando il diritto a raffica, e facendo riferimento a molte sentenze della Cassazione, ha subito puntato sullo zio. Nella fase istruttoria ha rilasciato dichiarazioni diverse da quelle rese in aula. «Ciò che lo zio ha affermato nella denuncia - ha sottolineato - vale solo per la sua credibilità, ma non si può usare come una prova. Altin cerca di scagionare il fratello, ma sulla base di una denuncia che è processualmente inesistente». Antonini non si ferma è incalza: «Il maresciallo della Finanza ha rilasciato dichiarazioni che non possono essere usate nel processo. Il sottufficiale parla delle indagini di Varese e indica anche Adriatik come acquirente della droga. Al processo, poi, pur non avendo partecipato alle indagini racconta del contenuto di alcune intercettazioni telefoniche. Purtroppo, di quelle dichiarazioni la difesa non ha mai avuto una copia. La procura non le ha allegate al fascicolo del processo né le ha mai consegnate alla difesa». Insomma, si è parlato di qualcosa che è avvenuto ma di cui non esistono gli atti. Infine, Antonini ha difeso il silenzio di Adriatik: «Per lui parla il suo avvocato. L’imputato ha un diritto che al processo nessuno ha: quello di tacere. Sapendo che le dichiarazioni possono essere usate contro di lui, Adriatik non parla della droga perché non ne sa nulla. Tace sui suoi rapporti con l’albanese arrestato a Varese. Ci sono le due telefonate con il pusher, ma dalle trascrizioni emergono solo affari, furgoni, viaggi. E le trascrizioni della seconda telefonata sono state chieste dai difensori. E anche lì si parla solo di trasporti».


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