Economia

Cassa di Risparmio, Sforza Fogliani: «Non si fuse per un gioco politico, ma per il suo bilancio»

Un libro curato da Eduardo Paradiso ripercorre la storia della Cassa di Risparmio di Piacenza attraverso le voci di chi ci ha lavorato. Ma Sforza Fogliani interviene e ricostruisce, secondo il suo parere, la fusione del 1993

Sabato 16 marzo, alle 10.30, al Grande Albergo Roma di via Cittadella, si terrà la presentazione della raccolta di scritti “La Cassa di Risparmio di Piacenza” - Sviluppo, innovazioni e persone. Breve storia dall'origine alla fusione 1861–1993. Si tratta di una pubblicazione a cura di Eduardo Paradiso che ripercorre la storia dell’istituto piacentino attraverso la voce dei suoi dipendenti. L’introduzione della presentazione vedrò protagonista il professor Paolo Rizzi del Laboratorio di Economia Locale dell’Università Cattolica di Piacenza. Porteranno un saluto anche gli autori: Angelo Cervetto, Marco Natali, Bruna Milani, Giorgio Ghittoni, Francesco Montescani.

Il libro tratta un argomento sicuramente interessante e decisivo per la storia del territorio piacentino. A pochi giorni dalla presentazione è da registrare l’intervento dell’avvocato Corrado Sforza Fogliani, presidente del comitato esecutivo della Banca di Piacenza.

Cassa di Risparmio, «La bufala dei patti parasociali e del futuro grandioso». Di Corrado Sforza Fogliani

«C’era una volta la Cassa di Risparmio di Piacenza. Che poi divenne di Piacenza e Vigevano. Poi Cariparma, poi Intesa e Intesa/San Paolo, poi ancora Crédit Agricole. Per oggi, siamo fermi qua. L’idrovora dal canto suo continua a fare il suo mestiere. La Cassa di risparmio di Piacenza (quando assorbì quella di Vigevano, sotto questo punto di vista non cambiò niente) s’è sempre divisa il mercato del credito nella nostra terra con la Banca di Piacenza, e fino ad allora contribuì - in modo determinante - a trattenere a Piacenza le risorse prodotte a Piacenza. Poi, nelle diverse denominazioni assunte, ha sempre condiviso nello stesso modo il controllo del territorio (le due, le altre banche - che si dividono tutte una minima quota di mercato - non le sentono neppure). Solo che i risparmi dei piacentini - sottoforma di utili prodotti - hanno continuato ad andarsene (prima a Parma, ora in Francia). E Piacenza, negli anni, non è certo rifiorita. Anzi…, anche prima dei giorni nostri.

Sulla Cassa di risparmio di Piacenza (il cui contributo alla crescita di Piacenza è noto a tutti: come per la Banca di Piacenza, rimasta però piacentina) è ora uscita - in autoedizione - un’aurea pubblicazione, a cura di Eduardo Paradiso (con approfonditi saggi di atri), di cui riproduciamo la copertina. La domanda alla quale la ricerca (documentata) vuole rispondere è questa: perché la fusione della nostra Cassa? E, in secondo luogo: perché con la Cassa di Parma?

Prima di tutto i fatti. La Cassa di risparmio di Parma e Piacenza nacque il 1° marzo 1993. La fusione con Parma fu un’improvvisata, annunciata e portata a termine in 90 giorni. Fino ad allora s’era sempre (e solo) parlato di una entità regionale (il Caer), nella quale peraltro Parma non ha mai pensato minimamente di entrare. Parma non ha mai accettato - infatti - ruoli da comprimaria, e questo - una volta di più - è stato il suo grande vantaggio, in tutti i settori. Anche questa volta, il suo orgoglio è stato premiato: ad un certo punto la nostra Cassa si rivolse a quella di Parma per una fusione a due. Parma, però, ce la fece pagare: il concambio delle azioni (su perizia di due esperti nominati dal Tribunale di Parma) fu deciso - ed accettato all’unanimità - in modo assolutamente disequilibrato: si accettò, in pratica, la valutazione che la Cassa di Piacenza valesse meno della metà di quella di Parma (che così si prese il 62,01 per cento del capitale contro il nostro 37,99 per cento). A Piacenza si disse che, a tutelarci, c’erano i “patti parasociali” e che il nostro futuro (al futuro, appunto…) sarebbe stato “grandioso”. Come sono andate le cose sotto questo punto di vista, lo sappiamo tutti: ora, il Consiglio è infarcito di francesi. Quanto ai patti (che però addormentarono i piacentini, diedero voce ai trombettieri, non si sa se più minchioni o più - in un modo o nell’altro - “interessati” per non dire prezzolati), nessuno li vide, nessuno li lesse mai, tutti ne parlarono solo (la stampa locale è a disposizione). Paradiso, in proposito, ha le idee chiare, e nette: “Si può paragonare l’intera vicenda alle più scontate commedie degli equivoci”, “Mai bufala fu meglio confezionata”, “Una vera e autentica fake news, come si dice oggi”.

 

Quindi, perché la Cassa si fuse? Perché - si capisce, ma il libro (di tifosi e - appassionati - funzionari e dirigenti della Cassa) non lo sostiene - la Cassa si era lanciata in operazioni ad alto rischio (futures) per entrare da prima della classe nell’ipotizzato Gruppo regionale di Casse, ma si presentò poi a Parma con una perdita su titoli di 64 miliardi e un’anticipazione di cassa di 1.000 miliardi da parte della Banca d’Italia. Assenza totale, poi, di una classe dirigente, nessun dibattito in città (come oggi), con la classe politica - a livello, o al di sotto, del minimo sindacale - a stendere tappetini all’operazione, sempre nell’illusione (come oggi, ancora) che, ad approvare, qualche briciola cadesse dalla tavola. Mostrarono vista lunga e comprensione di come sarebbero andate le cose solo Francesconi, Gallini e Girometta. Un politico (Dc) giunse a dire: “Spero che questa operazione si compia presto, temo infatti che Parma ci ripensi visti i contenuti ed i riflessi positivi che questa scelta avrà per Piacenza”. Il tutto nel convincimento (vero o finto) di quel “futuro grandioso” che la fusione ci avrebbe assicurato (sempre il futuro, ovviamente) secondo i propalatori. Infatti, “vulgus vult decepi et decipiatur igitur”. Questa la conclusione che traggo io, diversa da quella che il libro in rassegna invece sposa: che è che la Cassa si fuse non per la situazione di bilancio in cui venne a trovarsi, ma perché rientrata in un più ampio gioco politico (si richiamano in particolare i rapporti Mazzocchi-Andreatta), che mirava al controllo dell’economia attraverso il controllo delle banche e del credito in particolare.

Ma perché con Parma? Sempre - a nostro avviso - per lo stesso motivo: perché Parma non aveva accettato alcun ruolo comprimario (salvo poi il segreto disegno di emergere coi futures), era libera, poteva decidere e - decise - in pochi giorni. Questo, nel 1993: niente comprimari, meglio primi in una piccola area che secondi (o ultimi) in un’area vasta (senza nessun riferimento all’oggi). Chi, da noi, non ha ancora compreso che ai comprimari non resta nulla di sostanziale (in termini di reale crescita del territorio), che resta l’effimero di una giornata o di mezza giornata di gloria e basta, chi non capisce neppur oggi questa cosa, è indietro - anche rispetto alla Parma odierna - di più di un quarto di secolo. Almeno».

Corrado Sforza Fogliani


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